«Sii la voce, non la vittima». Con questo invito Ifrah Ahmed, giovane attivista somala e cittadina irlandese, si rivolge ogni giorno a milioni di donne africane. La sua storia è partita da un abuso dal quale però è riuscita a venirne fuori. Ifrah fa parte di quel 98 per cento di donne, tra i 15 e i 49 anni, che in Somalia ha subito la cosiddetta mutilazione genitale femminile (MGF). È stata circoncisa due volte all’età di otto anni ma non è lo status di vittima quello che ha deciso di indossare.
Una violenza “normale”
«Voglio che le persone mi vedano come colei che rende consapevoli le altre donne e le rafforza. Voglio dimostrare a tutti che, qualunque cosa noi abbiamo passato, possiamo essere forti e superare le avversità». Nel 2006, a diciassette anni, Ifrah giunge in Irlanda come rifugiata di guerra. Al suo arrivo è stata sottoposta a delle visite mediche, durante le quali si è scontrata con quanto le era accaduto. Chi le ha fatto il controllo ne è rimasto scioccato: «Che cosa ti è successo? Chi ti ha fatto questo?», si è sentita dire la ragazza, disorientata e con poche possibilità di controbattere. All’epoca non conosceva bene la lingua e nella sua testa rimbombava solo questo pensiero: «È la mia cultura, è normale». Parte del problema della MGF infatti risiede proprio nella normalità con cui questa pratica viene ancora oggi eseguita. Non se ne parla, si subisce, così come hanno fatto le altre donne in precedenza. Viene accettata perché parte della cultura di appartenenza. Eppure la mutilazione genitale è un abuso, una violenza che viola i diritti umani. Appena arrivata in Irlanda Ifrah si è resa conto di non essere sola. Parlando con le altre donne rifugiate si è riconosciuta nei racconti delle stesse esperienze traumatiche. La sua voce si alza oggi nella convinzione che sia proprio questo il modo migliore per contrastare il fenomeno: parlarne, rompere il silenzio. Il messaggio è chiaro: possono esserci delle alternative alla mutilazione, senza per questo essere irrispettosi della cultura e delle norme di una società.
Argomento tabù
Ifrah da quel momento non ha mai smesso di parlare di questo tema. Dalla comunità somala in Irlanda il dialogo si è esteso sempre di più, anche grazie ai social network. Lei stessa però ammette: «Non è sempre facile. Quando in una stanza ci sono solo donne, sono tutte d’accordo nel dire che queste mutilazioni siano un problema. Ma se anche un solo uomo è presente nessuna lo denuncerà apertamente». La mutilazione genitale femminile porta solo sofferenza: chi l’ha subita, nel migliore dei casi, riscontra dolore intenso durante il ciclo mestruale, nei rapporti sessuali, al momento del parto. Numerose sono le infezioni. Senza contare che molte bambine non sopravvivono alla pratica, perché muoiono durante la stessa per dissanguamento. «È un killer silenzioso», spiega Ifrah. Una delle obiezioni più diffuse con le quali l’attivista quotidianamente si scontra punta sul fatto che la donna non mutilata avrà difficoltà a trovare marito. Emerge inoltre come giustificazione un concetto di purezza da preservare, come se la mutilazione possa in qualche modo difendere le donne da una cattiva condotta sessuale. «La mutilazione è anche un tentativo di controllo sul corpo delle donne», ribadisce a questo proposito Ifrah. Nel 2010 decide così di dare vita alla Ifrah Foundation. La Fondazione si occupa di informare, sensibilizzare ed educare la società sui rischi e sulla reale natura della MGF. Tolleranza zero è il messaggio più ricorrente. La consapevolezza che la Ifrah Foundation intende stimolare si muove per far sì che questa pratica venga abbandonata una volta per tutte. «Quante bambine possiamo salvare se tutti alziamo la voce contro questo atto malvagio?», ribadisce l’attivista.
I giorni della battaglia
Ma, nonostante le campagne di sensibilizzazione e informazione, il problema della FGM è ancora attuale. Secondo Ifrah, il cambiamento sociale sarà possibile, ma solo attraverso il continuo dialogo e la presa di coscienza anche da parte degli uomini del problema. «Gli uomini tendono a non schierarsi e pensare che questa sia una faccenda di sole donne. Ma così nulla cambierà mai. Loro sono parte della soluzione perché prendono le decisioni, devono essere coinvolti. Abbiamo bisogno di più uomini che dicano di no», ha spiegato. Le reazioni della comunità somala irlandese nei suoi confronti non sono sempre state positive: Ifrah è stata minacciata più volte. Per questo è stata anche costretta a lasciare Dublino per un po’, ma è poi tornata. «Ho una voce e continuo ad usarla», ha sottolineato. Il suo contributo ha permesso l’emanazione nel 2012 della legge che in Irlanda vieta la mutilazione genitale femminile. «Se ho potuto farlo qui, posso farlo anche in Somalia», ha dichiarato. L’attivismo di Ifrah dunque non si ferma. Attualmente è impegnata nel supportare il governo della Somalia per far passare la legge che metta fine alla pratica di FGM. Ifrah oggi ricopre anche l’importante ruolo di Gender Advisor del Primo Ministro della Somalia e offre un supporto al ministero per le donne e lo sviluppo dei diritti umani. Nel 2012 è diventata una delle attiviste più presenti nei dibattiti pubblici. Nel 2019 è stato realizzato un film, A girl from Mogadishu di Mary McGuckian, liberamente ispirato alla sua storia.
Sguardo al futuro
La sfida principale è stata quella di cambiare la percezione della sua persona, da vittima di FGM a voce di se stessa e di tutte le altre donne che hanno vissuto la medesima esperienza. «È difficile per le donne esprimersi sulla questione. Dunque se due ragazze somale si presentano da me dopo aver visto il film e mi abbracciano, dicendo: “Ifrah, tu stai parlando per tutte noi”, mi sento così felice, così fiera». Nel 2018 era uscito un breve documentario della stessa Ifrah su una bambina di dieci anni, morta per dissanguamento dopo che le hanno inflitto la mutilazione. Questo contenuto, diventato in poco tempo virale, faceva parte di una serie voluta da UNHCR, Too Much Pain: the voices of refugee women. Affrontare senza filtri l’argomento ha scatenato delle reazioni e, da quel momento, sempre più genitori hanno portato in ospedale le bambine che avevano appena mutilato, evitando conseguenze peggiori. La pratica delle MGF in Somalia ha radici profonde, è presente da circa quattrocento anni e questo non può non avere un peso. Senza dimenticare la vergogna sociale alla quale sono consegnate le donne che si sottraggono a tutto ciò. Ma voci come quella di Ifrah lasciano spazio al cambiamento: «La mia speranza è quella di aumentare la consapevolezza. Quello che è successo a me non può essere cambiato. Il mio passato è il mio passato. Quello che posso fare è cambiare il futuro».
(Claudia Volonterio)