da www.chiesadimilano.it
Il 18 aprile 2015 più di 1.000 rifugiati e migranti hanno lasciato la Libia su un peschereccio sovraccarico diretto in Europa. In una notte senza luna nel Mediterraneo la nave è affondata. Ma coloro che sono annegati non saranno dimenticati: negli ultimi cinque anni un team guidato da una patologa forense italiana sta cercando di dare loro un nome.
«C’è un corpo che deve essere identificato, lo identifichi – questo è il primo comandamento della medicina legale», spiega Cristina Cattaneo, docente di Patologia forense e antropologia all’Università degli Studi di Milano (presente anche al Workshop 2019 di Africa Rivista). L’ossessione di Cattaneo è dare un nome ai morti. Questo è normale se un aereo precipita in Europa, dice. Perché dovrebbe essere diverso per i viaggiatori migranti?
«Ci sono così tante lapidi nei cimiteri europei con scritto “sconosciuto” al posto del nome e della data di morte – osserva -. Ed è tutto. Penso che questo sia tragico. È l’ultimo insulto che qualcuno possa ricevere».
Cattaneo e il suo team hanno aperto pratiche per più di 350 persone scomparse le cui famiglie ritengono possano essere morte nel naufragio del 18 aprile 2015. «Ciò significa che 350 famiglie si sono rivolte a una autorità alla ricerca dei loro morti in questo incidente – continua la dottoressa -. Sono passati cinque anni e queste persone stanno ancora cercando i loro cari».
Le persone che sono salite su quella vecchia barca in Libia provenivano da una dozzina di Paesi africani, tra cui Senegal, Mauritania, Nigeria, Costa d’Avorio, Sierra Leone, Mali, Gambia, Somalia ed Eritrea. A bordo c’erano anche bengalesi. L’uomo al timone, un tunisino, insieme a un siriano, sarebbe stato successivamente condannato per omicidio colposo e traffico di esseri umani da un tribunale italiano.