Senegal (di nuovo) in emergenza. Intervista alla dottoressa Diallo Mbaye

di Stefania Ragusa

Dakar, al mattino. Code di macchine dirette in centro, ragazzi con ai piedi sandali di plastica trasparenti salgono e scendono da car rapide in movimento urlando le destinazioni più svariate, alla ricerca di passeggeri. Lungo le strade un brulichio di piccole attività e venditori di caffè Touba. Di “diverso”, rispetto a una qualsiasi mattina senegalese, ci sono le mascherine colorate, che ciascuno porta alla propria maniera e gli agenti in divisa che, all’ingresso dei luoghi pubblici, misurano la temperatura e porgono gel disinfettante. Ieri è tornato anche il coprifuoco. Ma la vita comunque segue il suo corso e così anche la gente, sénégalaisement.

La preannunciata ecatombe da Covid-19 in Africa non c’è stata. Alcuni Paesi, e il Senegal è tra questi, hanno saputo gestire la pandemia in maniera particolarmente efficace. In Senegal, le scelte fatte soprattutto ad inizio pandemia si sono rivelate fondamentali perché pensate rispetto al contesto sociale, culturale, economico del paese. Questo ha permesso di contenere la diffusione del virus e, al contempo, di non far collassare un’economia ancora fragile. La seconda ondata però è arrivata anche qui. E con lei un nuovo stato d’emergenza, e il coprifuoco dalle 21 alle 5 del mattino. In attesa che il vaccino diventi una realtà anche qui, permangono l’obbligo dell’uso della maschere protettive nei luoghi e nei trasporti pubblici; il divieto di assembramenti e il tampone obbligatorio per chi entra nel paese.

La dottoressa Diallo Mbaye.
Foto di Chiara Barison

Khardiata Diallo Mbaye è medico infettivologo e parte integrante dell’equipe del professor Moussa Seydi, Capo del Dipartimento Malattie Infettive del CHNU di Fann e Presidente del Comitato Scientifico Covid-19 in Senegal, attore chiave nella gestione della pandemia in Senegal. Diallo Mbaye ha visto e conosce dall’interno quel che troppo spesso altri raccontano dall’esterno, senza esperienza diretta e senza dati. Ho avuto l’opportunità di intervistarla.

A cosa è dovuto questo aumento dei casi? Era prevedibile? «Sì. Le persone non si aspettavano che la pandemia durasse così a lungo. In molti pensavano si sarebbe risolta nel giro di qualche settimana o di qualche mese, invece il tempo passa e tanti non sono più stati vigili come all’inizio. Anzi, sono diventati negligenti. La mascherina è stata utilizzata di rado, con la scusa del caldo. Si sarebbe dovuta fare più comunicazione sul come convivere nella quotidianità con questo virus, sull’importanza dei gesti barriera».

Ci sono persone che continuano a pensare che il virus non esiste. Cosa vorrebbe dire loro? «In molti casi ad esprimersi così sono persone giovani e/o che non hanno sviluppato i segni della malattia, gli asintomatici, per intenderci. Queste stesse persone, se diventano veicolo di trasmissione oppure hanno una persona cara ammalata, cambiano rapidamente opinione. Inoltre, sono sempre più numerosi i casi di persone note e influenti che hanno contratto la malattia. Questo dovrebbe far capire che si tratta di una patologia reale».

Qual è la situazione in termini di numero di ricoveri ? «Siamo al completo ed è una situazione ormai costante. Abbiamo liste di pazienti ricoverati presso strutture private in attesa che si liberi un posto nei centri di trattamento; altri sono a casa, e aspettano a loro volta. Non vi è un solo giorno in cui un letto resti vuoto, siamo sempre al completo».

Come deve comportarsi una persona che presenta i sintomi? «Deve rimanere a casa e chiamare il SAMU (Service d’Assistance Médicale d’Urgences) al 1515 o comporre il 1919. Un’equipe verrà inviata sul posto per valutare se i sintomi sono compatibili con il Covid-19 e, in caso affermativo, verrà eseguito un tampone. La persona verrà messa in quarantena nell’attesa dei risultati e monitorata telefonicamente da personale medico specializzato».

Ci sono persone che si presentano direttamente in ospedale? «Capita che ci siano malati che si presentano in ospedale, non pensando che i loro sintomi possano essere legati al Coronavirus. Una volta visitati, nel caso di sospetta positività, vengono messi in isolamento in attesa del risultato del tampone. Se questo è positivo, il malato verrà ricoverato, sempre che vi sia disponibilità. Altrimenti, il paziente verrà mandato a casa ma non prima che il personale medico si sia assicurato di ricordargli le misure d’igiene da applicare e i gesti barriera da rispettare per evitare il contagio».

Ci sono anche persone che non chiamano il SAMU e non si presentano in ospedale perché temono di essere stigmatizzate. La convinzione che la malattia sia una “colpa” è ancora piuttosto radicata, no? «Il problema è spinoso. Le persone che sono venute a contatto con un caso positivo, non vogliono che si sappia e, senza questa informazione, non potranno essere testate. Tra loro potranno esserci degli asintomatici che non svilupperanno dunque i sintomi della malattia ma che potrebbero contagiare persone vulnerabili, come anziani o persone già colpite da altre patologie, maggiormente a rischio di sviluppare forme gravi. A queste persone dico di bandire l’egoismo. Essere positivi al Covid-19 non è qualcosa di cui vergognarsi. Abbiamo visto che tutti possono ammalarsi, dal più giovane al più anziano, dal più povero al più ricco. Si sono ammalati capi religiosi e personalità politiche. Se si interviene tempestivamente, guarire è più facile. Se invece ci si rifiuta di fare il tampone o di dichiarare i sintomi, si diventerà potenziali vettori di diffusione e, per un comportamento irresponsabile, si mette a rischio la propria vita e quella degli altri».

I protocolli adottati in Senegal prevedono la somministrazione di idrossiclorochina. Che risultati avete ottenuto? «Buoni. Va detto però che non è un trattamento per tutti. Prima ci si deve assicurare che il paziente non abbia problemi cardiaci particolari, per questo viene eseguito sempre un elettrocardiogramma di controllo. Bisogna inoltre verificare che il paziente non  sia affetto da altre patologie o, se si tratta di una donna, che non sia in gravidanza o in fase di allattamento. La somministrazione deve avvenire poi sotto stretto controllo medico e per un periodo limitato. È possiible ripetere il trattamento solo dopo uno stacco di tempo sufficiente».

Una volta guariti si è immuni al virus? «Il virus non ha ancora mostrato tutte le sue sfaccettature. Ci sono molte ricerche in corso. Sappiamo che l’immunità non è permanente. Chi è guarito deve continuare ad applicare i gesti barriera e ad agire con prudenza».

L’ospedale di Fann. Foto di Chiara Barison

Com’è la quotidianità del personale medico che lavora a stretto contatto con i malati positivi al Covid-19? «La nostra quotidianità è complessa, i turni di lavoro sono massacranti. Io, in quanto responsabile della struttura, devo essere presente ogni giorno rimanendo a volte fino a notte inoltrata, il che penalizza enormemente la mia vita personale e familiare. Se a questo si aggiunge una certa prevenzione nei nostri confronti: lavoriamo con persone positive al virus, possiamo essere veicoli di contagio. A volte è molto dura».

Che consiglio darebbe a chi lavora nella comunicazione per far passare messaggi utili ed efficaci? «Di puntare sulla non stigmatizzazione dei malati e sulla responsabilizzazione degli asintomatici. Questi ultimi sono il fulcro del problema. Come far capire ad una persona che non ha alcun sintomo che è malata?  Avrà difficoltà a crederci. Bisogna riuscire a comunicare in questo senso, far capire a queste persone che, nonostante la non sintomaticità, si è vettori di contagio. Senza dimenticare, naturalmente, di continuare a sensibilizzare sui gesti barriera».

La dottoressa Diallo Mbaye esorta non abbassare la guardia, a non dare nulla per scontato, anche qui. I contagi sono in aumento, nel silenzio di una presa in carico medica quotidiana, efficace ed efficiente. I media locali, così come numerose strutture di cooperazione, continuano nel frattempo nella loro azione di informazione sui gesti barriera. I dati, preoccupanti, sono ancora lontani dai numeri tragici di altri Paesi, e una libertà quasi impensabile altrove hanno permesso, fino a poco tempo fa, una normale quotidianità. Oggi i senegalesi devono ripensare questo privilegio. Sui social network si riaccendono i dibattiti. Riuscirà il Senegal ad essere d’esempio anche in questa seconda fase?

(Chiara Barison)

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