Crocevia di interessi internazionali e traffici criminali, passaggio obbligato per miriadi di migranti verso l’Europa, territorio strategico asserragliato da gruppi jihadisti, il Niger deve affrontare sfide enormi che ne minacciano la stabilità.
testo di François Misser – foto di Pascal Maitre e Tom Dirven
Finito suo malgrado al centro di enormi interessi geostrategici, traffici di ogni tipo, tensioni interne e regionali, il Niger deve affrontare sfide delicate. L’economia conosce una crescita veloce ma squilibrata. Annoverato tra i Paesi più poveri del mondo, secondo il Fondo monetario internazionale il Niger ha registrato notevoli performance: nel 2019 la crescita del Pil ha toccato il 6,5% e dovrebbe toccare l’11% nel 2022. Tuttavia il 41,5% della popolazione continua a vivere in estrema povertà. Il Niger gode di un’immagine di partner della lotta antiterrorista e contro le migrazioni illegali condotta dall’Unione europea. La Banca Mondiale e altri finanziatori hanno messo a disposizione 1,2 miliardi di euro per la costruzione della diga di Kandadji sul fiume Niger, mentre l’agenzia americana Millennium Challenge Corporation ha messo in campo un programma di aiuti quinquennale di 437 milioni di dollari, incentrato sull’istruzione, l’agricoltura e la salute. Il governo ha investito grandi risorse per la scolarizzazione delle bambine, destinata a ritardare l’età del loro matrimonio e a rallentare una crescita demografica esponenziale. Secondo gli analisti, se nel 2021 si arriverà a far adottare la contraccezione alla metà delle donne, si potrebbe abbassare entro tre anni il tasso di maternità dagli attuali 7 parti per donna a 5,3, frenando così la crescita demografica di un Paese che conta 23,7 milioni di abitanti.
Crisi dell’uranio
Un’altra grande sfida è il rallentamento del commercio dell’uranio, in seguito alla decisione della Germania di arrestare la produzione delle sue centrali nucleari nel 2022. Il Niger è il quarto fornitore mondiale di questo minerale, con una produzione di 2911 tonnellate nel 2018, che ha rappresentato il 40% dei proventi da esportazione. Le miniere si esauriscono e sono troppo care da sfruttare. La Compagnia mineraria d’Akouta chiuderà la sua produzione nel marzo 2021 (i suoi costi di produzione sono insostenibili: si aggirano sui 76 euro al chilo, quando il prezzo dell’uranio è di soli 54 euro). Anche la Società delle miniere dell’Aïr è ormai a fine vita, e ha già fortemente ridotto la produzione. Nel frattempo il progetto di Azelik, a duecento chilometri a sud-ovest di Arlit, sviluppato da China National Nuclear Corporation, Korea Resources e governo del Niger, va al rallentatore. Il vasto giacimento di Imamourem, a ottanta chilometri a sud di Arlit – riserve stimate a 120.000 tonnellate –, non sarà sfruttato prima di una ripresa del commercio mondiale dell’uranio. È in questo incerto scenario che la russa Rosatom sta valutando l’acquisizione di partecipazioni nelle miniere di uranio del Niger, segno che gli equilibri geostrategici nella regione – un tempo, roccaforte francese – stanno mutando.
Corsa all’oro
La crisi dell’uranio è tuttavia compensata dallo sviluppo di altre risorse minerarie. Dal 1980, il Niger è produttore di carbone. Nel 2014, è stata aperta un’altra miniera, a Salkadamma, per alimentare una centrale elettrica da 600 MW. Negli ultimi anni si assiste altresì al decollo del settore aurifero. A fianco dell’estrazione industriale, che assicura una produzione annua nell’ordine della tonnellata, dal 2010 si assiste a una vera e propria corsa all’oro nel Nord, nelle regioni di Tchibarakaten e dell’altopiano di Djado, alla frontiera con la Libia e l’Algeria. Una “febbre” che ha incrementato il banditismo e il traffico d’armi. Non è da escludere che l’industria aurifera abbia contribuito al finanziamento di gruppi estremisti, tanto più che tra i cercatori si contano sudanesi, libici ed ex militari ciadiani. In un rapporto pubblicato nel novembre 2019, l’International Crisis Group (Icg) solleva forti sospetti che dei gruppi armati, anche jihadisti, abbiano trovato un terreno di reclutamento nello sfruttamento aurifero artigianale. Non meno di 300.000, sempre secondo l’Igc, sarebbero i cercatori d’oro artigianali in Niger. Saleh Ibrahim, ex ribelle del Movimento dei nigerini per la giustizia (Mnj) e boss dell’economia criminale, si è riconvertito nell’estrazione aurifera artigianale a Tchibarakaten. La ricerca dell’oro è considerata un’attività halal, permessa da Allah, e, secondo l’Igc, nei siti minerari del dipartimento di Torodi sono stati pronunciati sermoni jihadisti che esortavano al rispetto della sharia. Dubai e Libia sono le principali destinazioni dell’oro estratto. Questo boom incontrollato ha generato problemi ecologici e sociali, dal momento che le braccia impiegate sono spesso quelle di bambini. Un rapporto del Centre de Recherche Géologique et Minière rivela gli effetti nocivi per l’ambiente dell’impiego di prodotti chimici (cianuro, mercurio, acido solforico) e di esplosivi che contaminano il suolo e le falde freatiche.
La scoperta del petrolio
Parallelamente, il Niger sta diventando un produttore di petrolio. Entro il 2021 il Paese dovrebbe in effetti quintuplicare la sua produzione al momento modesta, 20.000 barili al giorno, grazie alla costruzione di un oleodotto di duemila chilometri da Agadem alla costa beninese. Allo scopo è stata sottoscritta una convenzione, nel settembre 2019, con la China National Oil and Gas Exploration and Development Corporation, che opera su un giacimento nella regione di Diffa, vicino al Lago Ciad. Mentre il governo di Niamey ha annunciato la scoperta di un secondo bacino nella regione di Agadez, l’ong Jeunes Volontaires pour l’Environnement denuncia il pericolo rappresentato dall’estrazione petrolifera per la riserva naturale di Termit e Tin-Toumma, nel Nord-est del Niger. È la più vasta del continente, e sarà parzialmente declassificata per consentire il passaggio dell’oleodotto. Il Paese dovrebbe dotarsi nel corrente anno di un secondo cementificio, di una capacità annua di un milione di tonnellate, costruito dal miliardario nigeriano Aliko Dangote. Verranno così ridotte le importazioni di cemento, che al momento alimentano l’80% del mercato nazionale. Intanto crescono gli investimenti nell’agricoltura e in particolare nelle regioni di Agadez, di Tahoua, di Dosso e di Tillabéry, con il sostegno finanziario dell’Associazione internazionale di sviluppo.
Minaccia jihadista
Tutte queste performance non sortiscono in realtà l’effetto desiderato, dato che il Niger deve dedicare il 18% del suo bilancio alla sicurezza, minacciata dal terrorismo su tre fronti. Già nel 2013 un’autobomba danneggiò lo stabilimento della miniera d’uranio di Arlit, uccidendo un dipendente e ferendo quattordici lavoratori. La produzione rimase interrotta per quattro settimane.
Nel settembre 2019, il presidente Mahamadou Issoufou ha sottolineato lo stato emergenziale della situazione e invocato la creazione di una coalizione internazionale per la lotta al terrorismo. A ovest, il Paese subisce gli attacchi dello Stato Islamico guidato da Adnane Abou Walid al-Sahraoui come pure dalla coalizione comprendente Ansar Dine, del capo tuareg Iyad Ag Ghali; al-Qaeda nel Maghreb islamico, dell’algerino Abdelmalek Droukdel; e la Katiba del Macina, comandata dal Peul maliano Amadou Koufa, che recluta tra i Peul del Niger. Il governo ha vietato gli spostamenti senza scorta militare delle organizzazioni umanitarie nelle regioni di Tillabéry e di Tahoua, che ospitano 150.000 rifugiati e sfollati in seguito a violenze che hanno fatto centinaia di morti. Nel Sud-est, si moltiplicano gli attacchi di Boko Haram, insediato nel Nord della Nigeria e nelle isole del Lago Ciad. Secondo l’Onu, tra gennaio e agosto del 2019 sono state rapite 179 persone. L’insicurezza ha obbligato Medici senza frontiere a lasciare la città di Maine-Soroa.
Migranti in trappola
Si teme inoltre l’imminente apertura di un terzo fronte, a nord – come paventa l’economista francese Olivier Vallée –, con il rischio che il Niger si trovi coinvolto nella guerra libica. La minaccia jihadista ha avuto per conseguenza l’apertura di quattro basi militari francesi nel quadro dell’operazione Barkhane: a Niamey, Aguelal, Madama e Diffa. È venuta ad aggiungersi, a settembre, una base aerea americana. Ma la presenza militare straniera non per tutti è rassicurante. Contro di essa hanno manifestato nella capitale centinaia di studenti nel timore che tale presenza non faccia che attrarre le attività dei jihadisti. Intanto, quasi 450.000 rifugiati e sfollati si trovano presi in trappola, spinti fuori dalle aree flagellate dalla violenza, come il Nord della Nigeria, il Mali o il Burkina, e sempre più in difficoltà per raggiungere la Libia e, di là, l’Europa. Secondo l’Organizzazione mondiale delle migrazioni (Oim), tra il 2017 e il 2018 la media mensile dei migranti in transito nel Niger è scesa da 7000 a 5500. Il flusso non si è comunque esaurito. Ad Agadez sono arrivati in particolare molti sudanesi, alcuni dei quali sospettati di appartenere a gruppi armati cui si sono uniti giovani liberiani, ciadiani e maliani rientrati dalla Libia. Dal 2015, in 40.000 hanno beneficiato di un programma Oim di ritorno volontario. Bloccati in Niger, i migranti spesso non hanno i mezzi né per proseguire verso nord né per rientrare nel Paese d’origine.
Clima impazzito
Strategico per la prevenzione degli ingressi illegali nell’Ue, il Niger ha usufruito di progetti volti a compensare la riduzione dei guadagni di un’economia che si era costruita sul business della migrazione (passeurs, albergatori, trasportatori…). Ma dei 7000 membri dell’Associazione degli ex operatori della migrazione – eufemismo che indica i passeurs e loro complici – meno di 400 hanno fino a oggi ricevuto aiuti alla riconversione, circa 2000 euro a progetto.
Ai bisogni dei profughi si sommano quelli di 220.000 persone colpite dalle inondazioni tra giugno e agosto dello scorso anno. Il Paese è sempre più in balia dei cambiamenti climatici, ancor più a causa della portata d’acqua del fiume Niger, oscillante tra i 500 metri cubi al secondo e i 27.000 a seconda delle stagioni. Ciò crea seri problemi agli allevatori come ai pescatori, in un Paese in cui la popolazione potrebbe raddoppiare da qui al 2050. Non c’è accordo tra gli scienziati sulle possibili evoluzioni. C’è chi prevede un clima più asciutto tra le montagne del Futa Jalon in Guinea e a Timbuctu, e condizioni di maggior umidità a valle. Tutti però ammettono che la situazione è difficile a valutarsi.
testo di François Misser – foto di Pascal Maitre / Panos / Luz
(Questo articolo è stata pubblicato sul numero 2/2020 della Rivista Africa. Per acquistarne una copia, clicca qui). Se desideri abbonarti alla rivista clicca qui
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