Tra la primavera e l’estate del 1994 un milione di persone furono massacrate a colpi di machete in uno dei più atroci stermini di massa della storia dell’uomo. Il generale canadese Roméo Dallaire avrebbe potuto fermare la carneficina. Se lo avessero ascoltato. Ventisette anni dopo, torniamo a occuparci di quella pagina buia della storia. Giovedì 8 aprile (dalle ore 18.00 alle 19.30) la Rivista Africa in collaborazione con Terre di mezzo Editore organizza un evento online per ricordare il Genocidio dei tutsi in Ruanda. Non mancare.
di Daniele Scaglione*
Qual è l’attacco più terribile che avete in mente, dopo la fine della Seconda guerra mondiale? Se si fa questa domanda a chi vive in Europa e negli Stati Uniti d’America, è probabile che la risposta sia l’attentato dell’11 settembre 2001, a New York e contro il Pentagono. Nel World Trade Center sono state uccise 2606 persone. In effetti si tratta dell’attentato terroristico più devastante della storia, seguito da quelli avvenuti a Tikrit, Iraq, nel 2014, e a Sabra e Shatila nel 1982, in Libano (su quest’ultimo, però, le cifre sono rimaste incerte e, secondo alcune fonti, le vittime potrebbero essere oltre 3500).
Nessuno di questi attentati, però, si avvicina a una “giornata tipo” del Ruanda nella primavera del 1994. Tra aprile e luglio di quell’anno, nel Paese africano è stato commesso un numero impressionante di attacchi peggiori di quelli sopra citati. In sintesi, dal 6 aprile al 19 luglio del 1994 è come se in Ruanda le Twin Towers fossero state abbattute tre volte al giorno. Tre volte al giorno, entrambe le torri distrutte, per 104 giorni di fila.
Tutti sapevano
Ha senso questa contabilità dei morti? In realtà è indecente. Ma ha senso farla per capire qualcosa del genocidio dei Tutsi. Il capo dei caschi blu in Ruanda, il generale canadese Roméo Dallaire, nel giugno di quell’anno riceve la telefonata di un funzionario del governo americano, che gli fa diverse domande. Quante persone sono state uccise la scorsa settimana? Quanti rifugiati vi sono? Quanti dispersi? E quanti morti vi aspettate nella settimana entrante? E quanto pensate che queste uccisioni possano ancora andare avanti? Dallaire chiede il senso di tutte quelle statistiche. Senza scomporsi, il funzionario risponde che Washington sta valutando se intervenire in Ruanda ma, secondo le stime a sua disposizione, ci vogliono almeno 85.000 morti per giustificare la messa a rischio della vita di un soldato statunitense. Gli Usa, come noto, al pari di tutte le altre potenze mondiali scelsero di non intervenire a difesa delle vittime del genocidio. Washington, in realtà, s’impegnò anche nel boicottare ogni forma di intervento, e la Francia si spinse ancora più in là, sostenendo concretamente un regime che il genocidio l’aveva pianificato e lo stava compiendo.
Senso di colpa
Rappresentanti del cosiddetto “mondo avanzato” che si presero a cuore le vicende del piccolo Paese africano non ve ne furono molti. Il generale Dallaire fu uno di questi, e la pagò. La mattina del 26 giugno 2000 viene trovato su una panchina di un parco di Hull, in Québec. I poliziotti lo portano in ospedale. La diagnosi è semplice: ha aggiunto parecchio alcool agli psicofarmaci che assume ogni giorno. Perché prenda quelle medicine, invece, è faccenda più complicata.
Romeo Dallaire ha cinquantadue anni e il mese precedente ha dovuto abbandonare l’esercito canadese, di cui era generale a quattro stelle. Dopo la missione in Ruanda veniva assalito da incubi in cui vedeva corpi mutilati e cadaveri in decomposizione, cadeva in profonde crisi depressive, manifestava tendenze suicide. Con il passare del tempo non guarisce, anzi peggiora. Si mette nelle mani dei dottori ma, come egli stesso riconosce, «ci sono situazioni in cui anche le migliori cure e i terapisti più bravi non possono aiutare un soldato che soffre di questa nuova generazione di “ferite da peacekeeping”».
In Ruanda, Dallaire c’era andato allo scopo di contribuire a costruire la pace. Invece fu un massacro, il peggiore di tutta la seconda metà del Novecento. In 104 giorni furono ammazzate, in media, circa 8000 persone al giorno, un omicidio ogni decina di secondi. Al conto dei morti vanno aggiunti un paio di milioni di ruandesi fuggiti oltre confine e più o meno altrettanti rimasti in Ruanda ma sfollati chissà dove per salvarsi la vita. In poco più di tre mesi un intero Paese è stato rivoltato come un calzino.
Senza vergogna
Dallaire si è sentito – sono parole sue – «pienamente responsabile della morte di dieci soldati belgi, di altri morti, delle ferite non curate per mancanza di medicinali di molti dei miei soldati, dell’assassinio di 56 operatori della Croce Rossa, di due milioni di rifugiati e dello sterminio di circa un milione di ruandesi».
Per molti altri, invece, non era successo niente che li riguardasse. Nel 1995 la conferenza africana francofona si aprì con un minuto di silenzio in memoria del presidente Habyarimana, ma nessuno ricordò le vittime del genocidio. Nel giugno del 1998 Bill Clinton dichiarò che tutto era stato causato da «risentimenti tribali». «Che cosa può fare la Francia, quando dei capi africani decidono di regolare i loro conti con il machete?», chiese il presidente François Mitterrand. Sono argomentazioni razziste e false.
Il genocidio del Ruanda non sarebbe stato possibile se i colonizzatori europei non avessero enfatizzato e ufficializzato la divisione tra Hutu e Tutsi; se questa divisione non fosse poi stata strumentalizzata da chi ha guidato il Paese dopo l’indipendenza. Non ci sarebbe stato un massacro così grande in così poco tempo – un ritmo di morte confrontabile solo a quello di Auschwitz – se un gruppo di estremisti non lo avesse pianificato in modo meticoloso e scientifico, arruolando e armando forse oltre un milione di assassini. E il genocidio si sarebbe potuto evitare, si sarebbe potuto fermare, se il generale Roméo Dallaire avesse ricevuto i 5000 soldati ben addestrati che chiedeva. Ma quei soldati non sono mai arrivati.
(Daniele Scaglione)
*L’autore dell’articolo ha scritto diversi libri sul genocidio del 1994. Segnaliamo Rwanda. Istruzioni per un genocidio (Infinito, 2010, riedito 2018) e Rwanda, la cattiva memoria (Infinito, 2014; con Françoise Kankindi).
Questo articolo è uscito sul numero 2/2019. Per acquistare una copia della rivista, clicca qui, o visita l’e-shop. Giovedì 8 aprile (dalle ore 18.00 alle 19.30) la Rivista Africa in collaborazione con Terre di mezzo Editore organizza un evento online per ricordare il Genocidio dei tutsi in Ruanda e presentare in anteprima il libro “Nonostante la paura” di Jean Paul Habimana, sopravvissuto alle terrificanti violenze della primavera del 1994 in cui nel cuore dell’Africa persero la vita un milione di persone. Per informazioni e iscrizioni clicca qui.
Cento giorni di follia
Nel 1990 il Fronte patriottico ruandese (Fpr), costituito da rifugiati tutsi in Uganda, dà guerra al governo ruandese controllato dagli estremisti hutu. Il 6 aprile 1994, l’aereo che riporta il presidente Habyarimana a casa dopo una tornata di colloqui per la pace in Tanzania viene abbattuto sull’aeroporto di Kigali. L’indomani si scatenano i massacri – pianificati dagli estremisti Hutu e ai quali i media incitavano da tempo – ai danni dei Tutsi (all’epoca circa il 10% della popolazione) come pure degli Hutu moderati. Il genocidio – che sterminò, secondo gli attuali dati governativi, oltre un milione di ruandesi – fu perpetrato da un gran numero di civili, oltre che dall’esercito e dalle milizie interahamwe. La controffensiva dell’Fpr guidato da Paul Kagame mise fine, il 16 luglio, a cento giorni di stragi, cui vanno aggiunti i milioni di rifugiati nei Paesi vicini. La comunità internazionale, Onu compresa, brillò per la sua inettitudine. (P.M.M.)