Non si sono ancora spente le polemiche e le tensioni tra Roma e Ankara per le dichiarazioni del premier Mario Draghi su “Erdogan – dittatore”. Siamo andati ad indagare su come si sta muovendo la Turchia in Africa. Dalla Libia alla Somalia, dal Gambia al Senegal...
di Angelo Ravasi
La Turchia ha i piedi ben saldi in Africa: dalla Libia alla Somalia, dal Gambia al Senegal. La politica neo-ottomana del sultano di Ankara, Recep Tayyip Erdogan, non ha come obiettivo quello di contrastare questa o quell’altra potenza mondiale. Ad Ankara non interessa rubare spazi altrui, ma rafforzare i propri e da lì trovare nuove vie di espansione, scalzando avversari che non possono contare sulle carte che Erdogan mette sul tavolo da gioco. Una su tutte l’Islam. È da lì, infatti, che è partita la sua offensiva ed è sulla religione che si basa l’attrattiva turca. Poi, ovviamente, tutto ciò si concretizza con una penetrazione sia militare sia economica. E lo sfruttamento delle risorse africane non è certo l’ultimo pensiero del sultano. Insomma, la Turchia in Africa vuole rimanerci a lungo. E il suo attivismo politico-economico-militare, il suo espansionismo, sta scompaginando i piani geostrategici delle altre potenze straniere, facendo emergere tensioni e irritazioni (in tanti hanno visto dietro la dura dichiarazione di Mario Draghi contro Erdogan, definito “dittatore”, il dossier libico da cui l’Italia è stata progressivamente estromessa, a pochi giorni dal visita del premier italiano in Tripolitania, ormai in mano ai turchi)
Erdogan usa in maniera abile e spesso spregiudicata l’arma religiosa come fattore identitario e che accumuna diversi popoli africani. In Gambia, per esempio, ha inaugurato una moschea e diverse scuole finanziate dall’Agenzia di cooperazione e di sviluppo turca (Tika) che ha come missione principale quella di promuovere investimenti in paesi in via di sviluppo. Il sultano, inoltre, vuole issare la sua bandiera un po’ in tutte le capitali africane. Dal 2009 a oggi sono passate da 12 a 40 le ambasciate turche in Africa. Ma a fare la differenza sono gli investimenti e gli scambi commerciali della Turchia con L’Africa che dai 5, 4 miliardi di dollari nel 2003 sono diventati 26 miliardi di dollari del 2019, con l’obiettivo di raggiungere entro il 2023 i 50 miliardi. Non è un anno a caso: rappresenta il centenario della fondazione della Repubblica turca. Ogni accordo politico negli ultimi anni, inoltre, è stato accompagnato dall’apertura di un collegamento areo, che ha favorito gli sviluppi commerciali creando nuovi sbocchi. Turkish Airlines è diventata il primo vettore per numero di collegamenti con il continente africano, ed è stata – nel 2012 – la prima compagnia non africana a riaprire i collegamenti con Mogadiscio.
La politica di Erdogan
Tutto ciò è il frutto del lavorio costante di Erdogan. Un lavoro che parte da lontano. Già nel 1998 Ankara ha avviato il suo piano di espansione in Africa, che Erdogan ha perseguito con insistenza a partire dal 2003 – anno di inizio del suo mandato da premier – e che ha avuto nel 2008 il suo culmine quando l’Unione Africana ha dichiarato Ankara partner strategico del continente.
L’ultimo viaggio africano – nel 2020 – ha avuto l’intento di rafforzare la politica di Erdogan in Africa. Ad Algeri il sultano di Ankara ha chiesto il sostegno al suo impegno libico, ma senza grande successo. Il presidente algerino Abdelmadjid Tebboune ha mantenuto una posizione equidistante, non sposando le tesi turche, e perché vincolato da una Costituzione che impedisce interventi militari all’estero. In Gambia è stata tutta un’altra storia.
Il presidente Adama Barrow ha confermato la cooperazione tra i due paesi con toni trionfalistici: “I vari atti firmati, specialmente durante la mia ultima visita ad Ankara dimostrano l’alto livello di cooperazione tra le nostre due nazioni. Il mio governo ha il vostro sostegno per sviluppare la capacità delle nostre forze di sicurezza addestrando 500 ufficiali per il mantenimento della pace”. E anche in Senegal il sostegno alla politica di Erdogan è stato totale. Molti politici senegalesi hanno sottolineato le “affinità culturali, sociali e religiose tra i due paesi”, ma l’obiettivo vero è quello di aumentare il volume degli scambi commerciali portandolo a 400 milioni di dollari. Questo è stato il quarto viaggio del presidente turco in Senegal. Nel suo viaggio è stato accompagnato da una corposa delegazione di operatori economici turchi già presenti nel paese con importanti progetti: l’aeroporto internazionale Blaise Diagne, il complesso sportivo della Dakar Arena, oltre che a complessi abitativi e nell’industria siderurgica. Si può dire che Erdogan è di casa a Dakar.
Ma è in Somalia dove la presenza turca spicca per attivismo. Ed è qui, oltre che in Libia, che Erdogan vuole esercitare la sua influenza. Mogadiscio ha proposto ad Ankara di avviare operazioni di ricerca di petrolio al largo delle coste. E il sultano non ha rifiutato, inviando la Turkish Petroleum Corporation. Questo, possiamo dire, è l’ultimo tassello dell’espansionismo turco in Africa. Non a caso la più grande ambasciata in Africa è proprio a Mogadiscio, come pure la più grande base militare all’estero di Ankara. Una struttura costata 50 milioni di dollari, grande più di quattro chilometri quadrati. L’obiettivo – come sostiene l’ambasciatore turco a Mogadiscio, Mehmet Yilmaza – è quello di addestrare un terzo delle forze armate somale e poi c’è un sogno: costruire un esercito somalo di lingua turca.
Un’amicizia iniziata nel 2011 – Erdogan è stato il primo premier non africano a sbarcare in Somalia dopo vent’anni – e non certo disinteressata, vista la posizione strategica del paese, non solo per il suo petrolio ma, forse soprattutto, perché si affaccia sul Golfo di Aden. Su quello specchio d’acqua si affannano molte potenze straniere – dalla Cina agli Stati Uniti, dall’Arabia Saudita a molti paesi europei – e la Turchia non vuole essere da meno.
Che ci sia o meno una politica neo-ottomana, il sultano di Ankara – nuovo attore sullo scacchiere continentale – gode del favore delle leadership africane.
(Angelo Ravasi)