Benvenuto Mocci era una giovane camicia nera che, ispirato dalla propaganda fascista, nel 1936 lasciò la sua Sardegna e partì per le colonie italiane in Africa. Dopo aver combattuto in Libia e in Etiopia, venne catturato degli inglesi e fu mandato in prigionia nel campo di Zonderwater, in Sudafrica. Per uno strano caso della vita, finì in Nigeria. Dove scoprì un’Africa molto diversa da quella decantata dalla retorica coloniale. E se ne innamorò.
di Arrigo Pasqualino
“Io ti saluto vado in Abissinia, cara Virginia, ma tornerò.” Benvenuto Mocci era un giovane camicia nera quando, dalla Sardegna, partii alla volta dell’Africa orientale italiana nel 1936. Come lui, un’enorme massa di popolazione travolta da un esorbitante propaganda del regime, si convinse ad inseguire il mito del “posto al sole”.
“L’annuncio del duce al mondo; Camicie nere della rivoluzione uomini donne di tutta Italia! Italiani e amici dell’Italia al di là dei monti e al di là dei mari! Il maresciallo Badoglio mi telegrafa; “Oggi 5 maggio alle ore 16 alla testa delle truppe vittoriose sono entrato in Addis Abeba: l’Etiopia è italiana”. Sono alcune delle righe riportate su un vecchio quaderno da Benvenuto, mentre ascolta alla radio l’annuncio di Mussolini, in quel famigerato 5 Maggio 1936.
Il suo entusiasmo è forte, implacabile. Riversa la sua gioia nei suoi quaderni. “Sono orgoglioso, fiero ed entusiasta di poter sostenere il duce con tutte le mie forze”. Lui, camicia nera fin dagli albori del fascismo, è impaziente perché il sogno del grande impero è ormai realtà.
L’Italia fascista, di fronte al mondo, appariva come una grande potenza pronta a rievocare il suo passato imperiale. L’Africa, nell’immaginario collettivo, veniva vista come l’eden del benessere e della felicità, dove una società coloniale pura, istituita su lavoro, educazione, prosperità, ricchezza e da contorno seguita da paesaggi fiabeschi, creavano la cornice perfetta per un quadro alla Claude Monet. Ma l’entusiasmo irrefrenabile e i sogni più sfarzosi si scontrarono con la più ardua realtà.
Destinazione Libia
Benvenuto nasce nel 1906 in un piccolo paese al centro della Sardegna, in un contesto di povertà tale da costringerlo ad abbandonare gli studi, ed emigrare insieme al padre verso la piana di Terralba. Dove proprio in quegli anni si stavano svolgendo gli imponenti lavori di bonifica, che portarono poi alla nascita di Mussolinia di Sardegna, oggi Arborea.
All’età di 20 anni la chiamata alle armi, destinazione Libia. Arruolato nel 5° Battaglione cacciatori d’Africa, venne inviato in Cirenaica dove le truppe avevano il compito di pacificare il territorio. Notevoli le difficoltà, date dalle resistenze della popolazione autoctona e dal territorio desertico, in gran parte impraticabile.
Dopo circa due anni tornò in Sardegna ma, ormai, scoperto il mondo, gli veniva stretta. L’esperienza libica, la nostalgia di quelle terre d’oltremare, di lì in poi si faceva sempre più pesante. Come citava lui: “Il mal d’Africa sarà sempre più forte”.
In Africa orientale italiana
Con il ritorno in Italia, ne consegue un rapido avvicinamento al fascismo e ai suoi ideali. La totale adesione alla causa della ‘rivoluzione fascista’ avviene nel 1932, arruolandosi nella Milizia volontaria per la sicurezza della nazione (MVSN); in brevi termini le camicie nere. Benvenuto, nel novembre del 36’, dopo 6 mesi dalla conquista dell’Etiopia, sbarca a Massaua, in Eritrea, pronto a dare il suo apporto come soldato del genio. I reparti del genio venivano impiegati per compiere opere pubbliche come ponti, strade, aeroporti, acquedotti, necessari per velocizzare lo svolgimento del conflitto.
Stabilitosi prima in Etiopia e successivamente in Eritrea, partecipa alla campagna di repressione sulle popolazioni etiopiche che non accettarono l‘occupazione italiana. Alcune fotografie, ritrovate nelle memorie personali di Benvenuto, testimoniano le atrocità dell’esercito italiano verso la popolazione locale.
Nel 1937 si smobilita, in modo da poter condurre la tanto aspirata vita da colono, basata sul lavoro, sulla prosperità e sulla stabilità. Ma le colonie non si presentavano come il regime le descriveva, la precari età lavorativa non permetteva di stabilizzarsi né a livello abitativo né a livello economico. Di fatto, in circa tre anni Benvenuto cambiò 4 posti di lavoro svolgendo sempre la stessa mansione, ovvero il fabbro, spostandosi continuamente dall’altopiano al bassopiano eritreo.
Questo fino al giugno del 1940, quando l’Italia dichiara guerra a Inghilterra e Francia. Chiamato alle armi viene inviato sul fronte nord al confine con il Sudan, dove rimarrà fino all’offensiva britannica dei primi mesi del ‘41. Nella primavera dello stesso anno l’estenuante battaglia di Cheren, ultimo capo saldo italiano, che dopo mesi di eroica difesa vide le forze alleate avere la meglio. Questa vittoria aprì agli inglesi le porte per Asmara e, dopo pochi giorni, di tutta l’Eritrea.
Si stima che i soldati italiani provenienti dai fronti africani fatti prigionieri furono tra i 100.000 e i 200.000, distribuiti poi in campi di reclusione nei territori sotto il controllo della corona inglese. Il futuro che attende Benvenuto– come attendeva la maggior parte dei soldati – è la prigionia.
La prigionia in Sudafrica
Benvenuto viene catturato il 2 aprile 1941 nei pressi di Asmara. Imbarcato a Massaua con destinazione Durban, Sudafrica, viene trasferito tramite ferrovia verso il campo di Zonderwater, che in lingua boera significa “senza acqua”. È il campo di prigionia più grande costruito dagli alleati durante la Seconda guerra mondiale: tra l’aprile del 1941 e il gennaio del 1947 ospitò, infatti, oltre 100 mila soldati italiani. Nel primo periodo i soldati dovevano dormire all‘addiaccio nelle tende e subire un trattamento molto rude da parte delle guardie; l‘approvvigionamento alimentare si rivelava del tutto insufficiente.
Alla fine dell‘anno seguente, venne chiamato a dirigere il campo il colonnello Hendrik Frederik Prinsloo. Egli conosceva in prima persona la durezza della segregazione. Seppe dare prova di concretezza e umanità facendo costruire dai prigionieri stessi una piccola città di 14 Blocchi. Un agglomerato edilizio con 30 km di strade, mense, teatri, scuole, palestre, nel quale gli internati potessero trovare interessi ed evitare inedia e disperazione; nonché ospedali con complessi e chiese dove i cappellani militari cercavano di imporre quel minimo di disciplina che gli alti ufficiali, inviati in India in spregio alla Convenzione di Ginevra, non potevano più garantire. All’interno della “Città dai mattoni rossi”, così veniva chiamata, era necessario, per non soccombere, inventare un proprio mondo, scuotersi di dosso lo scoramento e l‘apatia, mantenere in esercizio la mente e i muscoli.
Non mancarono certo momenti di sconforto e periodi bui. Lontani da casa, con poche notizie e privati della libertà, dovettero convivere con i ricordi della guerra e l‘incertezza per il futuro. L‘uscita dell‘Italia dalla guerra e la cobelligeranza del governo Badoglio ebbero però positive ripercussioni sulla vita dei prigionieri. L’adesione volontaria alla causa degli alleati, consentì di lasciare il campo per lavorare nelle fattorie esterne del paese. Fuori dai reticolati i prigionieri poterono riassaporare i piaceri della vita civile, nonché guadagnare un salario. Non tutti però decisero di accettare la cooperazione con gli anglo-americani. Una tenace minoranza rivendicò la propria adesione all‘ideologia fascista. Benvenuto decise di collaborare e mettersi a disposizione, al di fuori del campo lo attendeva una semi libertà.
La permanenza in Nigeria
Il 27 aprile del 1943 salpò sul piroscafo S.S Elizabethville, destinazione West Africa (Nigeria). Dopo 20 giorni di navigazione arrivò insieme ad altri 4 italiani a Lagos, capitale della colonia inglese nell’Africa occidentale. Tutti e 5 vennero inseriti a lavorare in un ospedale ortopedico, in cui realizzavano protesi in ferro, necessari a chi aveva subito l’amputazione di un arto o altri tipi di infortuni.
L‘arrivo a Lagos fu il modo per poter condurre una vita sociale ed economica indipendente, nonostante lo status di prigioniero persistette fino al 1947, decise di rimanere in Nigeria fino al 1950, anno di ritorno al suo piccolo paese in Sardegna.
Molte persone che conobbero Benvenuto mi riferirono del suo “Mal d‘Africa” persistente, ossia la sensazione che si manifesta al rientro da un viaggio in terra d’Africa, quando si avverte un disagio psico-emotivo, ci si sente inadeguati e insofferenti nel riprendere il vecchio stile di vita. Scatta allora la nostalgia per la natura vergine e primordiale, per i giorni trascorsi, per i colori, i paesaggi, i suoni, i profumi e le genti della madre terra africana.
Mori nell’ottobre del 1975, lasciando un patrimonio documentale e fotografico che mi ha permesso, oggi, di raccontarvi un pezzo del nostro passato. A 61 anni dalla fine del colonialismo italiano, i dubbi e le incertezze fanno da padrona ad una parte della storia, con cui facciamo fatica a confrontarci. Omertà, vergogna ed un complessivo disinteresse, contribuiscono all’omissione di fatti importanti del nostro passato in terra d’Africa.
È doveroso e giusto fare chiarezza su fatti che ci interessano direttamente, che ricordano ciò che siamo stati e ciò che siamo diventati oggi. In quelle terre c’è una parte di ognuno di noi. Non dimentichiamolo, mai.
Copertina del settimanale Asso di bastoni, edizione 1950. Archivio personale Benvenuto Mocci. Benvenuto Mocci alcuni giorni prima di partire per l’Africa orientale italiana, Cagliari 1936. Archivio personale Benvenuto Mocci.
(Arrigo Pasqualino)