L’uccisione del presidente Idriss Deby Itno ha colto di sorpresa l’opinione pubblica, sebbene si sapesse che il presidente-combattente, dopo una vita trascorsa tra il deserto, il fronte e le responsabilità di potere, non godesse di un’ottima salute. Stesso sgomento tra gli analisti esperti del Ciad, come Alessio Iocchi, ricercatore presso il Norwegian Institute of International Affairs (Nupi): “Nessuno si aspettava una morte del genere, anzi il quadro era nettamente diverso. Ci si aspettava che facesse visita al campo di battaglia, che l’esercito bombardasse i ribelli e che Deby se ne tornasse nella capitale a festeggiare la vittoria alle presidenziali”, confessa il Senior Research Fellow, rispondendo alle domande di Africa Rivista / InfoAfrica.
Il primo punto è se considerare l’incursione dei ribelli del Fronte per l’Alleanza e la concordia (Fact), sconfinati in Ciad dalle loro basi in Libia, un contraccolpo delle recenti evoluzioni della situazione in Libia, che dopo anni di divisioni e caos armato sembra aver trovato la via di una stabilizzazione. Una stabilizzazione che richiede però – e lo chiedono a gran voce l’Onu, l’Ue e l’Unione africana – che tutti i gruppi armati stranieri e mercenari lascino il territorio libico. “La questione è sicuramente legata indirettamente al cambio di governo e al nuovo corso in Libia, dove quelli che in gergo vengono chiamati gruppi politico-militari devono lasciare”.
Tra il 2018 e il 2019 un altro gruppo armato prevalentemente composto da tebu (o toubou, una popolazione sparsa nelle aree di confine), che in Libia vengono percepiti come ciadiani ma che sono anche probabilmente in buona parte autoctoni, è stato cacciato via da Khalifa Haftar e costretto a entrare in Ciad. L’episodio ha suscitato l’ira di Deby, che ha costretto il generale libico a una sorta di patto informale in cui il gruppo armato è stato tollerato ancora per un po’ nella regione del Fezzan. “Una polveriera, con cui prima o poi Deby avrebbe dovuto vedersela in casa”.
Il sud della Libia, ricorda Iocchi, è spezzettato in porzioni di territorio anche abbastanza limitate in cui, in ognuna, gravita un gruppo armato che stringe alleanze di convenienza e controlla le due risorse sostanziali della Libia: la circolazione dei beni, dunque il contrabbando, e la circolazione del petrolio, legata a interessi molto più grossi e internazionali. Lo stesso Fact, nel 2018 era in opposizione a Haftar ma l’anno seguente, sono diventati alleati, un’alleanza basata sull’opportunismo economico. “I molti gruppi armati di origine ciadiana che operano nel sud e nel centro della Libia controllano i due o tre passaggi principali della zona del contrabbando tra Mediterraneo e Sahara, nella zona del Tibesti dove hanno le loro ‘casse’. In sostanza, questi gruppi si mantengono con il contrabbando e/o con lo sfruttamento artigianale di piccole miniere”.
Nella zona esistono sacche geologiche, con un po’ di uranio, bauxite, e alcuni filoni d’oro. Miniere prettamente artigianali sono in funzione con minatori artigianali, principalmente appartenenti all’etnia zaghawa di cui Idriss Deby Itno era anche il sultano, capo supremo, ma in un’area rivendicata da decenni dai tebu. Questi ultimi hanno orchestrato diversi attacchi per cercare di imporre un proprio racket, sempre fallito a causa della protezione di cui godevano gli “orpailleurs” informali di etnia zaghawa. Ma quello che in un primo tempo poteva sembrare un braccio di ferro inter-clanico negli ultimi anni si è molto militarizzato. Allo stesso tempo, l’area e i siti minerari del nord del Ciad hanno attirato l’attenzione di investitori qatarioti e turchi per un possibile sfruttamento.
Una teoria che circola in questi giorni, sulla quale però l’interlocutore di Africa Rivista / InfoAfrica non ha elementi di conferma, vedrebbe il Fact – poiché possiede anche una base operativa nel centro della Libia dove pochi anni fa si dice che erano stati avvistati i paramilitari del gruppo russo Wagner – appoggiato da soggetti russi e turchi. “Una versione che a me sembra per ora un po’ azzardata”, dice Iocchi. Che tiene a ricordare: “Dagli anni 70 in Ciad ci sono cicli ci ribellioni continui. La circolazione di armi raggiunge livelli elevatissimi”. Armi che Deby acquistava dai soliti partner internazionali, tra cui Francia, Italia, Ucraina, e che vengono rivendute, scambiate, barattate, con i ribelli. Per questo, ritiene Iocchi, l’immagine del soggetto straniero che arriva con un pacco di soldi e di armi e le consegna per andare a rovesciare Deby pare degna di un romanzo di spionaggio.
Sul futuro del Paese ci sono ancora molte incognite e tensioni. Il Fact dichiara che intende proseguire la sua avanzata fino a prendere i capisaldi di N’Djamena. Un’altra ribellione armata in Libia, il Ccsmr, ha dichiarato pieno appoggio al Fact, lasciando intendere che invia uomini al fronte come rinforzi. “Bisogna vedere se la ribellione, che finora è passata in aree estremamente desertiche, potrà conquistare davvero località strategiche del nord. Non sarà facile: nella località di Faya si trova una base militare dei francesi, che peraltro controllano l’intero spazio aereo del Ciad fino alla Libia – motivo anche per il quale il territorio libico godeva di una certa stabilità – ma se ci riusciranno allora ci sarà davvero da preoccuparsi”.
D’altronde, Deby è arrivato al potere nella stessa maniera. Qualora i ribelli riuscissero a far cadere gli eredi di Deby, dovranno dialogare con il “deep State”, i servizi di sicurezza interni, i servizi di sicurezza esteri, la guardia pretoriana, tutti in mano agli zaghawa e a loro alleati. Le capacità di governo di certo non sono il forte dei ribelli, mentre i veri politici, in 30 anni di Deby, sono piuttosto latitanti. Lo storico oppositore Saleh Kebzabo ha lanciato un appello a tutte le parti a un dialogo per il futuro della nazione. Forse l’unica opzione per evitare che il Ciad sprofondi nella guerra aperta.
(Céline Camoin)
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