Un minuscolo villaggio dentro il Lago Vittoria fa litigare Kenya e Uganda. Poco più di uno scoglio circondato da acque ricchissime, quasi miracolose, che attirano centinaia di pescatori, i quali vivono ammassati in casupole di lamiera. Da vent’anni Migingo è motivo di tensioni tra due Paesi
di Nicolas Delaunay – foto di Yasuyoshi Chiba / Afp
I bagliori riflessi dalle lamiere si vedono da lontano. Sulle acque del Lago Vittoria appare un affioramento tondeggiante coperto di baracche metalliche. Sembra una tartaruga gigante rivestita di ferro: è Migingo. L’isola è minuscola, circa tremilacinquecento metri quadri di superficie (metà di un campo da calcio), eppure ha centinaia di abitanti – fino a mille nella stagione secca – stipati in casupole di latte ondulate, aggrovigliate l’una sull’altra su quella scheggia di roccia. C’è poco altro se non qualche bar, bordello e un porticciolo.
Reti che si gonfiano di persico
Tuttavia da oltre un decennio Migingo è fonte di tensione tra Uganda e Kenya, confinanti, che non sono stati ancora in grado di decidere a chi realmente appartenga quell’isolotto in mezzo al lago più grande d’Africa. Per la sovranità su quello scoglio si è pure sfiorata la guerra. L’interesse è tutto per le acque profonde e particolarmente ricche di pesce che lo circondano. Mentre in altre zone del Vittoria i pescatori sono alle prese con la drammatica diminuzione delle quantità e varietà delle specie ittiche, qui le reti si gonfiano di miriadi di sardine e giganteschi esemplari di Lates niloticus, conosciuto come persico del Nilo.
Isaac Buhinza, 22 anni, ugandese, ha imparato a pescare da suo padre. Non è mai andato a scuola. «Sono stato attratto dalla fama di Migingo e non se sono rimasto deluso – dice –. Non so a quale Paese appartenga quest’isola, ma io rimango qui perché qui c’è il lavoro con cui posso sfamare la mia famiglia». Per i pescatori come Isaac, vivere qui consente di risparmiare carburante e offre la possibilità di vendere il pescato ai mercanti all’ingrosso che ogni giorno sbarcano a Migingo per rifornire i mercati della regione. Fino a una dozzina di anni fa l’isola – che alcune vecchie carte collocavano nelle acque territoriali del Kenya – era pressoché sconosciuta. Non c’erano abitanti, i pescatori la usavano come attracco di fortuna in caso di tempesta.
Vecchie mappe
L’attenzione all’isola iniziò nel 2008, allorché il governo di Kampala decise di inviare dei funzionari doganali a Migingo per tassare le attività di pesca. I pescatori keniani protestarono vibratamente. Ci furono scaramucce, inseguimenti in acqua, si sfiorò la collisione tra un motoscafo e una piroga. Nairobi reagì inviando su Migingo una ventina di agenti delle forze di sicurezza. La tensione salì e per un soffio non scoppiò il conflitto.
La diplomazia ebbe la meglio. Kenya e Uganda si accordarono per creare una commissione congiunta al fine di determinare l’esatta posizione di quel confine liquido e dirimere una volta per tutte la contesa territoriale. Ma non si raggiunse l’accordo nell’interpretazione delle mappe coloniali degli anni Venti del secolo scorso. E il destino di Migingo rimase sospeso.
In assenza di decisioni risolutorie, l’isola è cogestita da entrambi i Paesi, con la presenza di un manipolo di poliziotti per parte. È una fragile tregua, o meglio un matrimonio di convenienza che in questi anni ha visto parecchi alti e bassi. I residenti di Migingo, keniani e ugandesi, sono poco interessati alle liti dei loro politici. Che si tratti di mettere il pesce a essiccare sugli scogli, friggerlo in una cucina unta o legarlo per asciugarlo sui fili tra le baracche di metallo arrugginito, sono troppo impegnati a guadagnarsi la giornata per pensare alla frontiera contesa. «Ma a volte ci sono tensioni tra gli uomini in divisa», ammette Collins Ochieng, un giovane pescatore che si è trasferito sull’isola «per fare soldi».
La battaglia delle bandiere
L’ultima fiammata risale a metà settembre, quando gli agenti keniani hanno cercato di innalzare la loro bandiera sull’isola in risposta al vessillo fatto sventolare sopra le baracche dai loro colleghi ugandesi. «I gendarmi degli opposti schieramenti volevano mostrare i muscoli – commenta Ochieng –. Per un po’ di tempo hanno pattugliato l’isola in uniforme e con le armi ben in vista, incutendo terrore agli abitanti». La crisi è rientrata con un accordo di buon senso: nessun poliziotto avrebbe issato la bandiera del proprio Paese su Migingo. «L’incidente ha dimostrato che entrambi i governi prendono molto sul serio la questione irrisolta della sovranità», argomenta Boaz Owuor, un pescatore di 28 anni con base a Sori, sul lato keniano del lago, a circa quindici chilometri da Migingo. Fa una facile profezia: «Ci saranno altri incidenti e non escludo che le guardie armate possano arrivare ai ferri corti».
L’accordo di cogestione di Migingo stabilisce che sull’isola sia presente un numero uguale di poliziotti dei due stati. «Ma ci sono più ugandesi», sostiene un ufficiale keniano che chiede l’anonimato. Le autorità di Kampala negano «sdegnatamente l’illazione».
«Vogliamo solo pescare»
Il progressivo impoverimento delle acque del Lago Vittoria, un tempo ricchissime di pesci, oggi troppo inquinate e saccheggiate, ha fatto crescere la posta in gioco. Trenta milioni di persone vivono lungo le sue coste tra Uganda, Kenya e Tanzania. Negli ultimi quarant’anni, è andato perso l’80% delle specie ittiche indigene. E ampie porzioni del lago sono state soffocate da enormi distese di giacinti d’acqua, infestanti e dannosi per i pesci.
A Migingo, i pescatori di entrambe le nazionalità si lamentano delle continue angherie subite per mano dei poliziotti. «Trovano tutte le più piccole scuse per multarci, sequestrare il pescato e le attrezzature del nostro lavoro – ripetono all’unisono –. Ma la verità è che noi siamo solo le vittime sacrificali di un braccio di ferro tra due Paesi che si sfidano e provocano in continuazione». Le acque profonde più pescose si trovano sul versante dell’Uganda, mentre le acque poco profonde in cui i pesci si riproducono sono verso il Kenya. «La natura ci ricorda che dobbiamo lavorare tutti insieme. Di pesce ce n’è per tutti. Ma non c’è spazio per farsi la guerra».
(Nicolas Delaunay – foto di Yasuyoshi Chiba / Afp)
Questo articolo è uscito sul numero 5/2020. Per acquistare una copia della rivista, clicca qui, o visita l’e-shop.