Secondo i dati più recenti diffusi dall’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati (Unhcr), prima dell’ultima escalation culminata due giorni fa con il ritorno a Macallè al Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf) gli sfollati a causa del conflitto in corso da novembre nel Tigray, nel nord-est dell’Etiopia, erano 1,7 milioni. Ma un conflitto che va avanti significherà molto probabilmente ulteriori sofferenze per la popolazione civile.
Ancora ieri, le Nazioni Unite hanno ribadito preoccupazione per l’incerta situazione del Tigray. Due giorni fa le truppe ribelli del Tplf hanno fatto ingresso nella capitale regionale Macallè accompagnati da fuochi d’artificio. Nelle stesse ore il governo di Addis Abeba dichiarava un cessate-il-fuoco unilaterale, secondo molti osservatori più legato all’evoluzione sul campo che a una strategia di più ampio respiro.
“Abbiamo ricevuto segnalazioni e l’Unhcr è estremamente preoccupato per gli ultimi sviluppi all’interno del Tigray, in particolare nella capitale Macallè“, ha detto Boris Cheshirkov, portavoce dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr). “Anche se siamo grati che tutto il nostro personale sia al sicuro e sotto controllo, siamo preoccupati per la mancanza di comunicazione, poiché sia l’energia elettrica che le reti telefoniche non funzionano”. Ciò ha reso “ancora più difficile per il nostro personale lavorare e fornire assistenza umanitaria”, ha spiegato Cheshirkov.
Cheshirkov ha auspicato “calma e moderazione” e ha fatto appello a tutte le parti in conflitto affinché rispettino il diritto internazionale per proteggere i civili, comprese le persone che sono state sfollate e per garantire che gli operatori umanitari possano continuare a esercitare i loro doveri e raggiungere quante più persone possibile”.
Facendo eco a tali preoccupazioni, il portavoce dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) Tarik Jasarevic ha affermato che l’agenzia delle Nazioni Unite sta “prendendo misure per rafforzare la sicurezza del personale, ma allo stesso tempo stiamo continuando a svolgere attività dove è possibile farlo”: ciò include campi per sfollati interni, accesso all’assistenza sanitaria essenziale e aumento del numero di cliniche sanitarie mobili che operano in comunità di difficile accesso.
“Siamo ovviamente preoccupati per potenziali epidemie di colera, morbillo e malaria nella regione”, ha affermato il portavoce dell’Oms. “Inoltre, la regione del Tigray si trova nella fascia della meningite ed è a rischio di epidemie di febbre gialla”.
Dopo otto mesi di conflitto tra le truppe del governo etiope e quelle fedeli al Fronte di liberazione del popolo del Tigray (Tplf), gli ospedali “funzionano a malapena”, le persone continuano a essere sfollate e la carestia è “incombente”, ha insistito Jasarevic.
Il campo di battaglia
Spostandosi dal quadro umanitario a quello più strettamente legato al conflitto, non è ancora chiaro quale sia la reale situazione sul campo e quali i possibili sviluppi. La situazione è molto confusa e non si capisce se i tigrini sono riusciti davvero a sfondare le difese etiopi oppure gli etiopi si sono ritirati dopo la dichiarazione di cessate-il-fuoco. È questo almeno il quadro tracciato da abba Mussie Zerai, sacerdote eritreo, conoscitore delle dinamiche politiche e sociali di Etiopia ed Eritrea.
“La verità è probabilmente nel mezzo – continua abba Mussie parlando con Africa -. Credo che gli etiopi abbiano lasciato il campo e i tigrini siano avanzati. Ma questo non significa nulla. Sono convinto che sul territorio rimangano truppe federali, miliziani amhara e soldati eritrei che monitoreranno continuamente la situazione. Addis Abeba e Asmara, dopo la guerra di novembre e gli sforzi di questi mesi, non lasceranno il campo così facilmente”.
In questa crisi quale ruolo ha giocato l’Eritrea? “L’Eritrea – continua il sacerdote – ha interesse che il Tplf, tradizionale nemico del regime di Asmara, non torni al potere. Quindi manterrà sempre una propria presenza, nascosta e discreta, nella regione”.
Abba Mussie però non crede alla propaganda che accolla tutte le responsabilità di stragi e violenza ai soldati eritrei. “L’Eritrea e le sue forze armate – spiega – hanno le loro responsabilità che io non nego. Detto questo e secondo quanto mi riportano le testimonianze sul luogo, gli eritrei non hanno commesso tutte le atrocità di cui vengono accusati. C’è un interesse da parte di più forze a scaricare tutte le colpe su di loro, anche etiopi e milizie amhara non sono estranei alle violenze”.
Secondo le notizie raccolte da abba Mussie, gli eritrei avrebbero iniziato a ritirarsi. Le truppe sarebbero state concentrate a nord del Tigray. “Certo – osserva abba Mussie – gli eritrei non lasceranno completamente la regione. Sono entrati in guerra per combattere il Tplf e far sì che non torni al potere. Non lasceranno facilmente che i tigrini riprendano il controllo della regione”.
I combattimenti di novembre e la guerriglia che ne è seguita hanno causato una forte emergenza umanitaria. “Alcuni aiuti sono arrivati nelle città del Tigray: Macallè, Axum, Adua, Scirè – conclude abba Mussie -, ma ci sono zone remote in cui non è arrivato alcun sostegno. Da quanto mi dicono i sacerdoti del Tigray, ci sono villaggi che da mesi fanno la fame e dove gli abitanti sono costretti a mangiare bacche ed erba. La Chiesa cattolica porta aiuti dove può e come può. I limiti però sono tanti. I posti di blocco sono sparsi per tutta la regione e i convogli umanitari sono fermati perché si teme portino aiuti ai ribelli”.
(Gabriele Nasci)