Esattamente trent’anni fa, il 30 giugno del 1991, più del 68 per cento dei cittadini bianchi del Sudafrica sceglieva di mettere la parola fine all’ultimo razzismo di Stato rimasto nel continente e nel mondo: il regime dell’apartheid, parola afrikaans che indica uno stato di separatezza e che incarnava la politica ufficiale del governo dal 1948.
Sulla decisione, sostenuta e portata avanti da Frederik Willem de Klerk, presidente della non ancora nazione arcobaleno dal 1989 al 1994, influì in molti casi un preciso calcolo economico. I vantaggi materiali e i privilegi correlati alla segregazione rischiavano di essere neutralizzati dalle sanzioni e dall’isolamento internazionale a cui Pretoria si sarebbe condannata se avesse scelto di non cambiare strada. De Klerk in televisione ringraziò i suoi concittadini. “La nostra politica è quella della divisione del potere, della collaborazione, della costruzione di un’unica nazione e di un Paese indiviso”.
A trent’anni di distanza il Sudafrica è rimasta effettivamente un’unica nazione in cui sulla carta le differenze etniche sono state abolite, ma il bilancio non è esattamente positivo, e non solo per il tasso di violenza, l’aids e la xenofobia che a ondate ricorrenti continua a travolgere i migranti provenienti da altri Paesi africani e che ha quasi portato alla rottura con la Nigeria, la prima economia del continente. Le differenze economiche rimangono marcate e, anche se la presenza bianca si è ridotta sensibilmente, passando dal 22 per cento del 1921 al poco più dell’8 per cento attuale, la ricchezza è concentrata in pochissime mani.
Tanti nodi dell’apartheid sono rimasti irrisolti. E non è un caso che pochi giorni fa il governo abbia annunciato la volontà di dar vita a una squadra congiunta polizia-magistratura incaricata di indagare sulle atrocità avvenute durante gli anni dell’apartheid. “Gli autori delle atrocità venute alla luce alla fine degli anni ’90, attraverso la Commissione per la verità e la riconciliazione dovranno presto affrontare la piena potenza della legge”, ha affermato il governo in una nota rilasciata lunedì.
A più di 27 anni dall’istituzione della democrazia, che fu un passaggio successivo alla fine dell’apartheid, i crimini irrisolti rimangono circa 300. L’Alta Corte di Johannesburg, per esempio, sta indagando sulla morte di Neil Aggett , un giovane medico trovato impiccato in una cella della stessa stazione di polizia nel 1982: la sua famiglia ha sempre denunciato la responsabilità della polizia per quella morte. Un altro caso emblematico è quello di Ahmed Timol, attivista anti-apartheid di 29 anni morto per mano della polizia nel 1971. Secondo la versione dell’epoca, si sarebbe buttato da solo giù dalla finestra della stazione di polizia di Johannesburg.
La commissione per la Verità e la Riconciliazione, guidata dal premio Nobel per la pace Desmond Tutu, è stata istituita nel 1994, in coincidenza con l’avvio della presidenza di Nelson Mandela. Il suo scopo è stato documentare i crimini commessi da tutte le parti durante il periodo dell’apartheid, creare le condizioni per mettere un punto e ricominciare, sotto il segno della pluralità etnica e della riparazione. I 300 crimini irrisolti dicono che l’obiettivo è stato centrato solo parzialmente.
La nuova squadra investigativa dovrebbe mettersi al lavoro in tempi stretti. Tra gli analisti permane la convinzione che i problemi attuali del Sudafrica siano – anche se in modi diversi – riconducibili a quel quid che è rimasto cristallizzato nell’oblio. C’è anche però chi osserva che qui, come in molti altri Paesi del mondo, si è semplicemente delineato un nuovo aprtheid, scandito da una linea di separazione che non riguarda il colore bensì il denaro.
(Stefania Ragusa)