Nelle ultime ore in Zimbabwe sono circolate voci secondo cui il governo avesse intenzione di vietare di indossare abiti femminili succinti come le minigonne. La reazione rabbiosa delle donne ha spinto il partito al potere, lo Zanu-PF, a smentire ufficialmente la notizia. Non è la prima volta che accade. E non mancano esempi di nazioni africane che hanno promulgato leggi moralizzatrici per imporre abiti decorosi alle donne
Il portavoce nazionale dello Zanu-PF (Unione Nazionale Africana Zimbabwe – Fronte Patriottico), partito al potere in Zimbabwe, Simon Khaya Moyo, in una dichiarazione ufficiale ha definito “prive di fondamento” le notizie che circolavano nelle ultime ore, secondo le quali il governo di Harare si apprestava a varare una forma per vietare le minigonne. “Zanu-PF prende le distanze da notizie non veritiere che sostengono che il partito stia facendo pressioni per il divieto di minigonne”, afferma la nota del partito, che ha accusato l’opposizione di avere diffuso le voci.
Moyo ha affermato inoltre che la lotta di liberazione dello Zimbabwe è stata combattuta sia da uomini che da donne (attraverso la Women’s League) e che il partito ha compiuto “passi significativi” per promuovere i diritti delle donne. “È quindi ridicolo che ad un imponente partito di massa che si è formato ed esiste sulle spalle della Women’s League possano essere attribuite tali banalità sul modo di vestirsi”, ha affermato.
Nonostante la smentita, da Harare sono filtrate indiscrezioni e retroscena imbarazzanti per il partito che da sempre detiene le leve del potere politico ed economico. E pare che la smentita ufficiale sia giunta solo dopo che la rabbia delle donne dello Zimbabwe stesse manifestandosi dal web alla piazza. D’altro canto era già successo nel 2009 che le massime autorità del partito intervenissero pubblicamente per smentire simili voci.
In Africa proposte di legge contro le minigonne non sono nuove. Negli ultimi anni diversi Paesi, come Uganda, lo Zambia, Nigeria, Namibia, Malawi o il Kenya, per citarne alcuni, hanno tentato di introdurre delle leggi per disciplinare l’impiego di indumenti femminili – specie la minigonna – ritenuti potenzialmente “peccaminosi”. Le radici di questo campagna moralizzatrice vanno oltre il semplice concetto di una presunta decenza e moralità da preservare. Divieti come questo sfociano in un ben più complesso tentativo di controllo della sessualità femminile alimentato da molte chiese cristiane di cui fanno parte spesso i leader politici.
In Uganda, nel 2014, il governo di Museveni ha firmato “l’Anti-Pornography Act”, una legge che prevedeva tra l’altro il divieto per le donne di indossare alcuni capi di abbigliamento oltraggiosi. Appena la normativa è entrata in vigore i giornali ugandesi hanno dato notizie di aggressioni di donne vestite con abiti succinti da parte di uomini “determinati ad aiutare la polizia”. Fatti terribili come questi si sono verificati non solo in Uganda, ma anche in Zambia. A questi episodi sono seguite manifestazioni e proteste in diversi Paesi, in cui le donne sono scese in piazza per ribadire i loro diritti, al grido di #MyDressMyChoice o #SaveTheMiniSkirt.
Il caso dello Zimbabwe riporta alla luce un problema che ad oggi è tutt’altro che concluso. Il tentativo di vietare determinati indumenti è stato spesso “mascherato” come un modo per preservare le donne dal rimanere vittima di molestie o abusi, come era stato dichiarato dal ministro ugandese Lokodo. Ma il problema è altrove e leggi di questo tipo non hanno nulla a che fare con il proteggere le donne. Immediata, all’indomani delle notizie che circolavano in Zimbabwe, la risposta sui social media delle donne, che hanno ribadito fermamente la loro intenzione di continuare ad vestirsi come vogliono.
(Claudia Volonterio)