Venerdì 30 Luglio, la città di Ravenna, nell’anno in cui ricorrono i sette secoli dalla morte di Dante Alighieri, ospiterà presso la Biblioteca Classense, a partire dalle 17, l’evento “Di soglia in soglia”. L’iniziativa vuole rimettere in connessione Dante e l’Africa. Il focus è la traduzione del primo canto della Divina Commedia in lingua wolof, idioma ufficiale del Senegal. Il programma prevede una tavola rotonda che riunirà intellettuali, amministratori, testimoni e protagonisti del serrato dialogo tra Ravenna e il Senegal avviato dal Teatro delle Albe a partire dagli anni ’80. Seguirà la lettura del primo canto dell’Inferno, in wolof e in italiano.
Qualche anno fa Simon Njami, curatore e critico tra i più competenti nell’ambito della cosiddetta arte contemporanea africana, realizzò una mostra straordinaria al Museum für Moderne Kunst di Francoforte, chiedendo a cinquanta artisti del Continente e della sua diaspora di ispirarsi alle tre cantiche della più famosa opera di Dante Alighieri. La mostra, concepita come un grande progetto itinerante, viaggiò tra le nazioni e sarebbe dovuta giungere infine in Italia, sua destinazione ideale in tutti i sensi. Per una serie di ragioni, di budget, miopia culturale e opportunità politica, questa conclusione non ci fu. E il pubblico italiano, senza averne contezza, fu privato di un’opportunità per allargare gli orizzonti che in fondo lo riguardava più di chiunque altro.
Nell’anno in cui ricorrono i sette secoli dalla morte del poeta fiorentino, un’iniziativa più piccola ma ugualmente intensa, ri-mette in connessione Dante e l’Africa. Il suo focus è la traduzione del primo canto della Divina Commedia in una lingua africana: il wolof, idioma ufficiale del Senegal ma rimasto ancora sostanzialmente orale. A proporcene un anticipo, venerdì prossimo, sarà la città di Ravenna. Si tratta di una giornata dedicata alla memoria dell’attore senegalese Mandiaye N’Diaye, perno e figura di riferimento del ravennate Teatro delle Albe, mancato prematuramente nel 2014. L’evento, intitolato non casualmente Di soglia in soglia (espressione che si ritrova nel terzo canto del Paradiso), sarà ospitato alla Biblioteca Classense a partire dalle 17. Il programma prevede una tavola rotonda, condotta dallo scrittore di origine algerina Tahar Lamri, che riunirà intellettuali, amministratori, testimoni e protagonisti del serrato dialogo tra Ravenna e il Senegal avviato dal Teatro delle Albe a partire dagli anni ’80. La tavola rotonda sarà seguita dalla lettura del primo canto dell’Inferno, in wolof e in italiano. A recitarlo dovrebbe esserci lo scrittore italo-senegalese Pap Khouma, incaricato della traduzione dall’Istituto Italiano di Cultura di Dakar.
Cristina Di Giorgio, direttrice dell’Istituto e in procinto di cedere il testimone a Serena Cinquegrana, ha voluto questa traduzione per inviarla a Mauro Petroni, creativo italiano residente in Senegal da molti anni e curatore della sezione Off della Biennale d’Arte di Dakar. Questi l’ha girata a sua volta a sette artisti visuali senegalesi, invitandoli a creare qualcosa di nuovo ispirandosi appunto al canto primo. I lavori, ancora in costruzione, saranno esposti il prossimo autunno a Dakar, in occasione della Settimana della Lingua Italiana nel mondo. Ispirato al canto primo sarà anche il laboratorio teatrale che Marco Martinelli, fondatore e regista del Teatro delle Albe, terrà a Pikine, popoloso centro urbano appena fuori Dakar, nella medesima occasione.
In preparazione di questo evento, Di Giorgio ha proposto al Teatro delle Albe di collaborare alla realizzazione di un volume che testimoniasse le relazioni culturali tra Ravenna e il Senegal e di una giornata introduttiva e celebrativa, nel ricordo di Mandiaye e sotto il segno di Dante. Il volume si intitola Ravenna-Dakar-Piana dei Kadd. Sotto il segno di Dante. Lo ha curato Tahar Lamri, che è stato un grande amico di Mandiaye N’Diaye e lo pubblica Kanaga, casa editrice fondata da Kohuma e dal poeta senegalese Cheik Tidiane Gaye. In questo libro, come sottolinea Lamri nella video intervista rilasciata a Africa Rivista, trovano posto una pluralità di testi e di testimonianze, lontanissimi dal grigiore della comunicazione istituzionale, benchè firmati in vari casi da esponenti delle istituzioni, e anche da un’eventuale “operazione nostalgia”, per quanto dedicati “alla memoria di Mandiaye N’Diaye. Naturalmente”. Sono testi e testimonianze che da un lato documentano la costruzione metaforica e concreta di strade e ponti destinati ad avvicinare persone e mondi solo in apparenza separati, dall’altro indicano una serie di possibilità nuove e inedite di incontri e meticciato. La traduzione della Divina Commedia in wolof, “sfida letteraria singolare”, come l’ha definita Pap Kohuma, è certo annoverabile tra queste.
Il wolof parlato oggi è costantemente intriso di prestiti dal francese e da altre lingue, spiega Kohuma, e lui ha cercato, nei limiti del possibile, di evitarli, provando a risalire all’idioma originale e misurandosi sovente con la difficoltà di trovare una corrispondenza esatta tra i concetti e le parole di Dante e la lingua senegalese. In wolof, per esempio, non esiste un termine che corrisponda esattamente alla parola montagna, probabilmente perché in Senegal di montagne non ce ne sono. E in realtà non c’è nemmeno un corrispettivo preciso per la parola Inferno, resa nella traduzione con safara, che indica il fuoco. La lupa, altro concetto inesistente in wolof, è stata sensatamente trasformata in uno sciacallo, che è al contrario un animale ben conosciuto in Senegal. Un’altra questione fondamentale con cui ha dovuto misurarsi il traduttore è stata la struttura metrica: come renderla in wolof? Kohuma ha deciso alla fine di mettere da parte la terzina dantesca, sforzandosi tuttavia di creare un effetto ritmico ugualmente coinvolgente e declamatorio, orecchiabile anche per chi non parla wolof. Non esistendo un’ortografia wolof codificata, anche le scelte di scrittura sono state complesse. D’altra parte, ed è lo stesso Kohuma a ricordarlo, citando Umberto Eco, ogni “traduzione è innanzitutto un processo di negoziazione, preceduto da un processo di interpretazione”. Tra le azioni comunicative, la traduzione è, insomma, quella che abbatte steccati e appare più d’ogni altra paragonabile alla costruzione di un ponte. E la poesia, con la sua capacità di attraversare il tempo senza esserne erosa, si rivela in tutto questo un formidabile materiale. Perché, come rileva Lamri, citando Borges, alla fine della video intervista, “il tempo che dirocca i castelli aggiunge forza alla poesia”.
(Stefania Ragusa)