Accendiamo una lanterna verde perché la pietà torni a vivere

di claudia

Libia, Sahel, Grecia, Marocco, confine Bielorussia – Polonia, Mediterraneo: il dramma dei migranti è sotto gli occhi di tutti, ma sembra che i nostri cuori si siano abituati a queste tragedie immani. Quando i riflettori dei media si spengono, una volta passato il culmine, tutto torna nell’oblio colpevole e di quei luoghi non si sente più parlare. Di fronte a queste tragedie è necessaria una responsabilità collettiva

di Angelo Ferrari – direttore editoriale africarivista.it 

Confine Bielorussia-Polonia: migliaia di disperati assiepati al freddo con la sola speranza di raggiungere l’Europa, il sogno di una vita migliore. Invece, al quel confine, sono stati attratti con l’inganno da un dittatore senza scrupoli solo per usarli come arma di guerra, loro malgrado. Libia: migliaia di persone fuggite dalla fame, da un futuro che non c’è, dai cambiamenti climatici che rendono impossibile la vita, sono rinchiusi in lager senza via di scampo, trattati come schiavi, le donne stuprate e umiliate. Marocco: i disperati si arrampicano sulle recinzioni che circondano, e difendono, le enclave spagnole. La loro sorte sembra essere segnata e il loro sogno rimane appeso a una rete invalicabile. Grecia: centinaia di rifugiati chiusi in un’isola che è diventata un incubo, peggiore di quello che in molti hanno vissuto nel loro paese. Sahel: le carovane di disperati arrancano nella sabbia del deserto, vessati da trafficanti di esseri umani senza scrupoli, solo pronti a estorcere altro denaro per far proseguire il viaggio verso la costa mediterranea. Molti di loro non ce la fanno, rimangono lì, sepolti dalla sabbia, altri riescono ad arrivare fino alle spiagge tunisine o libiche. Mediterraneo: in migliaia riescono a imbarcarsi su barconi o gommoni che si sgonfiano alla prima onda potente, arrancano in mezzo al mare e si lasciano andare sul fondo. Molti vengono salvati dalle navi delle Ong che pattugliano le acque in cerca di naufraghi da portare sulla terra ferma, in un porto sicuro, dove troveranno l’accoglienza di pochi e l’ostilità di molti. Ma si potrebbero aggiungere altri confini reali o virtuali che non hanno avuto l’onore delle cronache.

In tutti questi luoghi la pietà sembra morta, sepolta. Sembra che i nostri cuori si siano abituati a queste tragedie immani. I cuori rattrappiti perché continuamente sottoposti allo sforzo di voler allontanare una minaccia che non c’è. Eppure i nostri occhi hanno visto, guardato le immagini che da quei luoghi scorrevano sui nostri televisori, sentito le testimonianze terribili che venivano raccontate. Immagini e testimonianze mandate a ripetizione quando la tragedia era al suo culmine, quando minacciava la nostra sicurezza e serenità. Poi tutto è tornato nell’oblio colpevole. Di quei luoghi non si sente più parlare. Nessun racconto, nessuna testimonianza. No, un mondo così non ci piace, ci addolora. Non è il nostro mondo. Quegli uomini e quelle donne, quei bambini e quelle bambine sono ancora lì, aggrappati a un sogno che sperano si realizzi. E, senza doverlo chiedere, si aggrappano alla nostra coscienza di uomini liberi. Ma noi non ascoltiamo, ci voltiamo dall’altra parte. Non ci immedesimiamo in quel sogno.

migranti

Quelle migliaia di persone non sono diverse da noi: sperano, sognano, desiderano tanto quanto facciamo noi. Come tutti noi non hanno deciso dove nascere. Sono nati nella parte sbagliata del mondo? Forse. Ma non dobbiamo dimenticarci che a far diventare sbagliata quella parte di modo abbiamo contribuito anche noi. Le guerre, l’egoismo di non mettere mano a ciò che può mitigare i cambiamenti climatici. Accettare le politiche dei governi occidentali che in vaste aree del pianeta, in Africa in particolare, sono solo attente a far sì che i migranti non arrivino da noi, privilegiando l’opzione militare, anziché mettere in atto politiche di sviluppo adeguate ed efficaci. Quei migranti, poi, li apostrofiamo come “economici”, quindi degni di non essere accolti. Non hai opportunità nel tuo paese, non l’avrai nemmeno da noi. Di fronte a queste tragedie è necessaria una responsabilità collettiva. Invece accettiamo che i nostri governi costruiscano muri sempre più alti e invalicabili che, un giorno, diventeranno il nostro di incubo.

Accettiamo che le Ong siamo definite “taxi del mare”, complici dei trafficanti di esseri umani. Ci chiediamo quanti sarebbero stati e quanti, purtroppo, moriranno ancora in un mare che un giorno non sarà più nostro, se non ci fossero quelle imbarcazioni cariche di umanità. Possibile che rimaniamo indifferenti a quelle lanterne verdi che gli abitanti dei villaggi polacchi al confine con la Bielorussia hanno messo sui loro davanzali per indicare la via del conforto per migliaia di persone? Possibile che la nostra civiltà non sappia guardare oltre le armi per rendere la vita di tutti migliore? In quest’epoca di pandemia spesso ci siamo detti “nessuno di salva da solo”. Eppure stiamo facendo di tutto per salvarci da soli, trascurando miliardi di persone, lasciandole al loro destino, come se questo non ci riguardasse, senza capire che dallo loro salvezza dipende anche la nostra di vita. Anche in questo caso abbiamo alzato muri, barriere virtuali, ma poco efficaci, perché poi le varianti di quel virus pandemico, che in quei luoghi lontani nascono, si abbattono su di noi come un flagello.

Ma, intanto, quei vaccini così preziosi ce li teniamo per noi. E allora prendo a prestito le parole che Papa Francesco ha pronunciato di fronte ai migranti di Lesbo. Quelle parole che per un attimo hanno scosso il mondo, ma che poi sono tornate nel torpore di coscienze ammuffite dall’egoismo. Vale la pena ricordarle: “Contrastiamo alla radice il pensiero dominante, quello che ruota attorno al proprio io, ai propri egoismi personali e nazionali, che diventano misura e criterio di ogni cosa… Prego l’uomo, ogni uomo: superiamo la paralisi della paura, l’indifferenza che uccide, il cinico disinteresse che con guanti di velluto condanna a morte chi sta ai margini”.

Accendiamo una lanterna verde perché la pietà torni a vivere.

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