L’incredibile storia di una donna costretta dai jihadisti a indossare una cintura esplosiva. Sopravvissuta per miracolo all’attentato suicida. Nella regione del Lago Ciad, Boko Haram recluta i nuovi combattenti tra la povera gente. Alcuni si arruolano per fuggire alla miseria, altri vengono obbligati a sacrificare la vita in attentati sanguinari. Ma c’è chi scampa a questo tragico destino
di Daniele Bellocchio – foto di Marco Gualazzini
Halima Adam: tutti conoscono questo nome a Bol, il principale villaggio ciadiano sulle rive del Lago Ciad, e tutti conoscono la storia di Halima, ma quasi nessuno la chiama per nome. Per quasi tutti lei è “la Kamikaze”. Halima Adam è infatti l’unica kamikaze di cui si abbia notizia a essere sopravvissuta a un’azione suicida. «Se volete incontrarla, prendete una piroga, attraversate il lago fino all’isola di Gomirom-Domou: lei vive là. Ma è una zona molto pericolosa, è territorio di Boko Haram. E vi avverto che è pericoloso pure ascoltare il racconto della sua vita: è un orrore difficile anche solo da immaginare».
A mettere in allerta è lo chef canton di Bol, Youssouf Mbodou Mbami. Lui conosce bene la storia della donna, avendola soccorsa per primo dopo l’attentato. «Era il 23 dicembre 2016, arrivò la notizia che i terroristi avevano fatto un massacro sull’isola di Yiga, a tre chilometri dalla nostra cittadina. Mi precipitai e trovai la giovane donna ancora viva, senza gambe e in stato di shock. Tremava e non riuscivamo a calmarla. Era drogata, per portarla in salvo l’avvolgemmo in un tappeto e usammo una scala a pioli come barella, poi in piroga la traghettammo sino all’ospedale di Bol. Ma lei saprà raccontarvi in modo più approfondito la sua storia».
Covo di jihadisti
Il mattino seguente, sulla spiaggia di Bol, il capitano dell’esercito ciadiano Affeni insieme a quattro suoi uomini sale sulla piroga diretta all’isola di Gomirom-Domou e li invita a prepararsi per un’azione di guerra. I militari, con il volto coperto dal turbante, inseriscono i caricatori negli Ak47 e mettono il colpo in canna. Per tutto il viaggio scrutano attraverso la scanalatura del mirino acquitrini e canneti che la lenta imbarcazione oltrepassa scivolando sulle placide acque del lago. «Questa è una zona molto pericolosa, i jihadisti sfruttano le isole per nascondersi e poi, calato il sole, compiono razzie e stragi nei villaggi qua intorno».
La barca rallenta ulteriormente e la prua affonda in un sottilissimo strato di limo prima di arrestarsi sulla spiaggia dell’isola dove vive l’ex attentatrice. Il sole picchia, la temperatura raggiunge i 50 gradi. Dopo un chilometro tra sabbie, rovi e cardi compaiono alcune capanne, tra cui quella di Halima. È seduta su una stuoia di rafia e accanto a lei le protesi delle gambe preannunciano il racconto: «Sono stata data in sposa dalla mia famiglia a 12 anni. Lui era un pescatore. Abbiamo vissuto insieme fino al 2016, quando un giorno disse che ci saremmo trasferiti su un’altra isola, dove la pesca era più redditizia». La donna s’interrompe. Da questo momento la sua storia dà le vertigini, è un’immersione in un incubo reale.
Ingannata
«Mio marito mi ingannò. Non mi portò su un’isola dove la pesca era migliore, ma dai terroristi di Boko Haram, perché voleva diventare un guerrigliero. Si arruolò, fece l’addestramento militare, mentre io fui condotta in un edificio dove c’erano solo donne e vi trascorsi un anno passando le giornate a leggere il Corano e a cucinare per i terroristi. Poi, un giorno mio marito venne a dirmi che a breve sarei andata in paradiso: mi aveva designata per essere una kamikaze».
La donna ha lo sguardo perso e una smorfia di dolore le attraverso il viso. «Fui convocata dai capi dell’organizzazione. Mi dissero che dovevo essere felice di andare in paradiso e di esaudire il volere di Allah. Ero sconvolta, non potevo rifiutare, sennò mi avrebbero decapitata. Ero terrorizzata. Mi fecero delle iniezioni, mi drogarono; poi mi diedero la cintura esplosiva ingiungendomi di fare una strage nel mercato di Bol». Il racconto prosegue fino al giorno dell’azione: «Insieme ad altri sette terroristi, alcuni nigerini, altri nigeriani e pure camerunesi, marciai per tre giorni e tre notti. A tre chilometri da Bol ci fermammo a pregare: fu in quel momento che i comitati di autodifesa ci intercettarono. Io la cintura l’avevo nel tascapane, gli altri invece l’avevano indosso e, come si resero conto di essere stati scoperti, subito la attivarono. Mi ricordo le esplosioni e basta. Fui l’unica a salvarmi. Mi svegliai in ospedale senza gambe e senza più una vita. Mi hanno costretta a far del male alla mia gente, per tutti io sono “la Kamikaze”. Non avrò mai un uomo, sarò sempre sola, sola con il peso del mio passato».
Centro di recupero
Halima non è la sola ex di Boko Haram a vivere a Gomirom-Domou, c’è anche Youssouf, 20 anni, uno sguardo incendiato dall’incubo e una ridda infernale di ricordi che rievoca all’ombra di un albero: «Mi ero arruolato volontario perché Boko Haram dà soldi, cibo e anche donne da sposare. Io ero un mujahid, ho conosciuto il leader al-Barnawi e mi hanno addestrato, mi hanno insegnato a sparare, a muoverci di notte, a fare i combattimenti con il pugnale, e ho assaltato dei villaggi. Poi mi sono reso conto che se fossi rimasto con loro non avrei avuto altro destino che la morte. Allora sono scappato e sono tornato a vivere qua con mio padre. Ma in Ciad c’è troppa povertà, troppa fame, troppa miseria: finché sarà così, Boko Haram avrà combustibile per attirare a sé nuove persone».
Quanto dichiarato dal mujahid pentito è confermato da Ahmat Yacoub, ragazzo soldato ai tempi della guerra civile, poi studente modello, professore universitario di sociologia e fondatore del Cedpe (Centro studi per lo sviluppo e la prevenzione dell’estremismo), il primo istituto nato per combattere il fanatismo e avviare l’opera di deradicalizzazione nel Sahel. «La nascita di questo centro è molto legata alla mia vita personale. Fui arruolato dai ribelli da ragazzino, divenni un baby-soldato, fui manipolato. Oggi vivono la stessa situazione moltissimi ragazzi e non solo, che entrano a far parte di Boko Haram».
In fuga dal terrore
«I terroristi – prosegue Ahmat – fanno leva sull’ignoranza, sulla mancanza di tutto, e con promesse di soldi, cibo e gloria eterna arruolano uomini, donne e anche bambini. Rivedo quello che è accaduto a me nelle vite dei giovani del mio Paese: per questo ho deciso di intervenire mettendo in campo la mia conoscenza e anche il mio vissuto». E aggiunge: «La crisi economica e ambientale e il terrorismo di Boko Haram sono due facce della stessa medaglia. La miseria è il principale carburante per i terroristi, grazie a questa riescono ad arruolare nuovi miliziani e ad allargare così le proprie fila».
Tra le fila dei soldati di Abubakar Shekau c’è stato anche Abdoullay Tidjiani, che oggi fa il falegname a Bol, ma quelle mani che oggi cercano redenzione nel biblico mestiere che si fa con pialla e martello sono mani che hanno versato sangue innocente: «Io sono nigeriano e facevo il commerciante. Ero al lavoro quando i terroristi sono arrivati e hanno costretto me ed altri uomini a seguirli. Chi non obbediva veniva ucciso. Mi hanno portato in un accampamento ed è iniziato l’addestramento: combattimento a mani nude e con il pugnale, utilizzo del kalashnikov e dei lanciarazzi Rpg, e ore passate a studiare il Corano e ad ascoltare le predicazioni degli imam che ci dicevano di uccidere perché questo era il volere di Allah. Terminato l’addestramento, mi hanno mandato in battaglia. Prima pregavamo e poi al grido di Allahu Akbar assaltavamo villaggi e postazioni dell’esercito.
Dopo tre anni, però, è successo qualcosa nella mia testa: non ce la facevo più a vedere gente uccisa senza ragione e di vivere commettendo atrocità. E mi sono domandato: “perché?”. Da quel momento non ho desiderato che fuggire. Una notte, approfittando dell’oscurità, sono scappato con mia moglie e mio figlio e siamo arrivati a Bol. Sono qua da sette mesi, voglio tornare a una vita normale, vorrei che tutto quel che ho visto e che è successo non fosse mai accaduto. Ma indietro non si può tornare. So che ogni giorno e ogni notte della mia vita dovrò convivere con l’orrore».
Questo articolo è uscito sul numero 3/2021 della rivista. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.