di Enrico Casale
L’Africa potrebbe diventare la nuova frontiera delle terre rare. Le grandi economie occidentali, ma anche la Cina, hanno interesse a sfruttare i giacimenti del continente. Ciò potrebbe portare a nuovi investimenti e alla creazione di impianti che, oltre all’estrazione, permettano la raffinazione di queste preziosi componenti. È quanto sostiene Pier Paolo Raimondi, ricercatore dello Iai (Istituto affari internazionali), nell’intervista che ha rilasciato ad Africa e Affari.
Quello delle terre rare è un ambito che promette grandi sviluppi ma che, al momento, sembra appannaggio quasi esclusivo della Cina.
“Tra gli anni Cinquanta e Ottanta del secolo scorso, il leader mondiale nel campo delle terre rare erano gli Stati Uniti. La produzione mondiale dipendeva prevalentemente dai loro giacimenti. L’elevato impatto sull’ambiente circostante ha poi portato gli Stati Uniti a rivedere in senso restrittivo la propria legislazione in materia e queste misure hanno fortemente limitato sia l’estrazione sia la raffinazione delle terre rare. Il baricentro si è quindi spostato a oriente. Nel 1992, l’allora leader cinese Deng Xiao Ping, visitando una miniera, disse: «Il Medio Oriente ha il petrolio, noi abbiamo le terre rare». Da lì iniziò uno sviluppo enorme del settore. Oggi è la Cina il principale player del comparto. Secondo le stime più attendibili produce circa il 60% delle terre rare e ne raffina l’80%”.
Le conseguenze di tale situazione sono state evidenti qualche anno fa e hanno suscitato un primo cambio di atteggiamento.
“La Cina domina questo mercato. Il problema della dipendenza dalla Cina di tutte le economie mondiali è emerso infatti con grande evidenza nel 2010 quando Pechino, a causa di scontri diplomatici con Tokyo attorno alle Isole Senkaku, ne vietò l’esportazione verso il Giappone. Più recentemente, Pechino ha minacciato gli Stati Uniti di vietare l’export in concomitanza con l’aumento delle tariffe doganali statunitensi su alcuni prodotti cinesi deciso dal presidente Donald Trump. La Cina non ha poi attuato tale provvedimento, ma è diventato chiaro al mondo l’enorme potere in mano all’élite cinese.
Questi fatti hanno spinto Stati Uniti, Canada, Australia, ma anche l’Europa, a cercare alternative alla Cina. E l’Africa, che è ricca di terre rare, è sembrata essere una delle mete predestinate. Il primo obiettivo è almeno la diversificazione dell’estrazione. Un obiettivo che anche Pechino, paradossalmente, è interessato a perseguire. Occorre sottolineare che anche in Cina l’emergenza ambientale è diventata un dossier importante e anche lì si sta cercando di limitare o, quantomeno, a meglio regolamentare la produzione e la raffinazione delle terre rare. Quindi gli stessi cinesi hanno interesse a cercare altrove le risorse. A ciò si aggiunge il fatto che la Cina, come altri Paesi, si sta avviando sulla strada della transizione ecologica e quindi anch’essa ha bisogno di materiali tecnologici per mettere in pratica le nuove misure. Di conseguenza servono quantità più ampie dei preziosi metalli”.
Dal lato africano, invece, com’è, a grandi linee, la situazione?
“Nel continente, gli Stati più ricchi di terre rare sono quelli della regione australe, principalmente Sudafrica, Angola, Namibia, Madagascar. Risorse, poi, sono disponibili anche nella regione dei Grandi Laghi (Rd Congo, Burundi, Rwanda). Tutti questi Paesi hanno espresso interesse non solo a estrarre le terre rare, ma anche ad avviarne la raffinazione. Tali processi, però, richiedono forti investimenti e tecnologie avanzate che le fragili economie africane non si possono permettere. I progetti attualmente in corso nel continente sono infatti tutti sponsorizzati dalla Cina e dall’Occidente. Penso all’estrazione in Burundi, fatta con capitali britannici. O a quella in Malawi, dove a investire sono stati i canadesi”.
L’Italia potrebbe avere un proprio ruolo?
“L’Italia potrebbe trovare un proprio spazio all’interno di un’iniziativa europea, prendendo parte a una partnership con gli altri Paesi dell’Unione Europea per aprire opportunità di estrazione e raffinazione in Africa”.
E l’Africa quale atteggiamento potrebbe avere nei confronti di questi investimenti?
“A livello economico i Paesi africani potrebbero avere interesse a favorire gli investimenti nel comparto perché questi portano entrate e lavoro. In questo settore, la politica potrebbe però assumere atteggiamenti “nazionalistici”, potrebbe cioè intervenire limitando fortemente la gestione delle risorse naturali. Una tendenza che si sta già verificando nel settore energetico e con la quale vanno fatti i conti”.