L’Africa e le sue riserve minerarie: la nuova frontiera delle terre rare

di claudia


di Alessio Bruni – Centro studi AMIStaDeS


L’attuale decennio vedrà il continente nero come il principale campo di battaglia per il controllo delle terre rare e, conseguentemente, per la supremazia economica; certamente, è difficile pensare all’inizio di una nuova Guerra Fredda che vedrebbe come principali protagonisti Stati Uniti e Cina in quanto la presenza dell’Unione europea e di altre potenze come la Russia, il Giappone e l’Australia diminuisce le probabilità. Tuttavia, il controllo delle miniere e degli hub strategici dell’Africa sarà uno dei punti fondamentali nella corsa alle terre rare, oggi più che mai le risorse maggiormente desiderate al fine di raggiungere gli obbiettivi ambientali e della transizione energetica.


Le terre rare, scoperte nel lontano 1787 nel villaggio svedese di Ytterby e denominate così dall’Unione Internazionale di Chimica Pura e Applicata (IUPAC), sono un gruppo di 17 elementi chimici della tavola periodica fondamentali per lo sviluppo tecnologico ed elettronico globale. Alla fine degli anni ’90, il Presidente cinese Xi Jinping fece un paragone tanto importante quanto irrealistico (apparentemente), dichiarando come il Medio Oriente avesse il petrolio mentre la Cina avesse le terre rare. Oggigiorno, quelle parole utopiche risuonano nei corridori di tutte le amministrazioni nazionali più importanti tanto che si parla di una nuova era, quella delle terre rare, identificate come una risorsa comune ma nascosta, dormiente sotto imponenti strati di roccia ed estraibile soltanto attraverso tecnologie innovative e moderne. Il tema principale delle terre rare è sempre stato il monopolio industriale di Pechino che controlla più del 60% della produzione globale di questi elementi.

Le terre rare al centro della competizione per la leadership internazionale
Negli ultimi anni, la competizione per l’ottenimento delle terre rare si è concentrata nel continente africano, da sempre rigoglioso e pieno di risorse, specialmente lungo le coste occidentali e orientali meridionali. Le superpotenze più attive in tal senso sono la Cina, principalmente nell’ambito della Belt and Road Initiative, e la Russia, prima della recente invasione dell’Ucraina che ha spostato totalmente il focus geopolitico del Cremlino. Pechino è da sempre il maggior sostenitore economico della maggior parte dei paesi africani, specialmente quelli strategici o ricchi di terre rare, in quanto le banche cinesi costituiscono circa un quinto di tutti i prestiti del continente. Dal canto suo, Mosca è tradizionalmente il partner militare di alcuni governi locali alle prese con l’instabilità politica interna dei loro paesi attraverso il gruppo Wagner, organizzazione paramilitare russa alle dipendenze del Presidente Vladimir Putin. Questi ultimi, mettendo a disposizione dei governi locali coinvolti in conflitti interni la propria capacità e le proprie tattiche militari, hanno guadagnato la loro fiducia ed uno speciale status diplomatico, il quale ha permesso al gruppo Wagner di stipulare conseguenti accordi minerali redditizi per ambo le parti.

Sia la Cina che la Russia stanno capitalizzando l’aumento della domanda delle terre rare, l’industria la cui crescita sarà la più esponenziale nei prossimi anni grazie al ruolo da protagonista che la transizione energetica ha assunto a livello globale. In Africa, gli irrisori costi di manodopera e una regolamentazione poco sviluppata ed implementata hanno spianato la strada alle ingerenze esterne cinesi e russe. L’Africa sub-sahariana e l’Africa Australe sono le due regioni potenzialmente più importanti e capaci di soddisfare la crescente domanda di questi minerali, essendo al contempo anche le due aree non ancora sfruttate da questo punto di vista; certamente, il Nord e il Sud America offrono opportunità alternative per controbilanciare lo squilibrio di mercato in corso. Tuttavia, gli occhi del mondo si sono posati su un certo numero di Paesi dell’Africa meridionale ed orientale, considerati game-changer nella partita globale della transizione energetica.

Namibia, Sudafrica, Kenya, Madagascar, Malawi, Mozambico, Tanzania, Zambia e Burundi: queste nove nazioni si caratterizzano per una serie di depositi di terre rare qualitativamente importanti e strutturati da rendere il loro commercio economicamente sostenibile. Risorse e volontà sono alla base dei progetti in corso, implementati da diverse multinazionali, le quali si scontrano con un’impraticabilità a livello di costi e progressi. Effettivamente, la maggior parte di questi progetti sono in fase embrionale o prospettica, mentre quelli già avviati, tra cui il progetto Gakara della Rainbow Rare Earth in Burundi o il Makuutu Project in Malawi, sono notoriamente conosciuti per una gestione complicata dal punto di vista economico. L’apertura di nuove miniere ha innescato un innalzamento dei costi produttivi, i quali hanno causato alcuni grattacapi negli ultimi anni nonostante il capitale sociale delle società sia cresciuto esponenzialmente in concomitanza con la sempre più costante domanda di terre rare.

Non solo Pechino e Mosca in Africa per le terre rare
Secondo alcuni esperti, l’Africa è potenzialmente il continente in grado di diventare il nuovo polo produttivo dal quale attingere le risorse necessarie per controbilanciare l’egemonia cinese in questo settore. In primis, l’Unione Europea, nell’ambito del Green Deal e del pacchetto Fit for 55, ha implementato una duplice strategia: da un lato, lo sviluppo di alcuni depositi domestici attraverso il riciclo dei materiali; dall’altro, nell’ambito della strategia Global Gateway, la finalizzazione di numerose partnership strategiche con i sopracitati paesi africani al fine di accaparrarsi la fornitura di questi elementi che, al giorno d’oggi, dipende quasi esclusivamente dalla Cina. Bruxelles ha tutte le carte in regola per fornire quel supporto istituzionale e quella expertise dal punto di vista economico e sociale che, in alcuni casi, può venire meno all’interno di alcuni governi locali.

Washington, risvegliata dal suo torpore industriale nel post-pandemia, si è resa conto di come l’economia locale possa impantanarsi a causa della carenza di terre rare, fondamentali per alcuni settori produttivi e per l’industria della difesa, messe in cima alla lista delle priorità prima da Trump e successivamente da Biden. Lo sviluppo dell’industria domestica è certamente una soluzione praticabile ed auspicata ma riscontra numerosi problemi a livello ambientale a causa delle stringenti regolamentazioni nazionali che ne delimitano i progressi. Di conseguenza, gli Stati Uniti hanno definitivamente posato i propri occhi su alcuni paesi africani, tra cui Malawi (Mkango Resources) e Burundi (Rainbow Rare Earth), con i quali già nel 2019 il dipartimento della Difesa ha formalizzato le trattative per la creazione, sviluppo e gestione di importanti progetti minerari.

Contemporaneamente, alcune potenze (ri)emergenti in questo settore, Australia e Giappone, hanno incrementato la loro presenza in Africa. Nonostante una quantità ingente di riserve domestiche, Canberra ha avviato alcuni progetti in Tanzania (Ngualla Mining Project) e Malawi (Makuutu Project); al contempo, dopo la crisi delle terre rare nel 2010 con la Cina, Tokyo sostiene alcuni progetti, ad esempio in Namibia e in Sudafrica, attraverso la Japan Oil, Gas and Metals National Corporation. Al fine di contenere il monopolio cinese delle terre rare e garantire un certo livello di autonomia, gli Stati Uniti sono chiamati a collaborare con queste due superpotenze energetiche al fine di garantire un’effettiva diversificazione delle fonti che, fino ad ora, è solamente una grande speranza a livello mondiale.

Sitografia
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