A Maiduguri, nel nord-est della Nigeria, si convive con il terrore di Boko Haram. La capitale del Borno è la culla della feroce setta islamista che in dodici anni di violenze ha provocato 35.000 morti e due milioni e mezzo di sfollati. I cristiani vivono nella costante paura di essere ammazzati. Nemmeno i musulmani dormono sonni tranquilli: i terroristi li accusano di non essere abbastanza credenti
di Andrea Spinelli Barrile – foto di Marco Gualazzini
Maiduguri è una polverosa città gialla e ocra fatta perlopiù di case basse, che non si sa bene quanti abitanti abbia. E questo è il suo primo problema: i campi profughi in periferia, le stazioni abbandonate, le strade, brulicano di persone, famiglie intere, provenienti dai villaggi di tutto lo Stato. E non solo. La capitale dello Stato federale del Borno, nel nord-est della Nigeria, sarebbe una delle tante grandi città d’Africa sconosciute se il suo nome non fosse tragicamente legato a quello della setta religiosa più temuta di tutta l’Africa subsahariana: Boko Haram. Il nome, in lingua hausa, di questo sanguinario gruppo jihadista è una sorta di manifesto politico e di monito alla popolazione: “L’educazione occidentale è sacrilega”.
A Maiduguri Boko Haram è nata nel 2002 ed è cresciuta, mantenendo una solida base per le sue incursioni nello Stato stesso di Borno e in quello limitrofo di Kano, oltre che in Niger, in Ciad (N’Djamena è più vicina persino della città di Kano) e in Camerun. «La città di sangue», la definisce don Joseph della diocesi di Maiduguri, sacerdote cattolico costretto come i suoi fedeli a convivere con il terrore, sotto la costante minaccia di un attentato o di un rapimento.
Milioni di fuggiaschi
Maiduguri resta, nonostante Boko Haram e la sua tragica narrativa, una città importante: come una stella, si trova al centro di un crocevia di cinque grandi arterie stradali, cuore e snodo di traffici commerciali da Niger e Ciad, ha due università (quella di Maiduguri e quella di Borno) e dieci anni fa la sua popolazione era stimata a circa 1,2 milioni di abitanti (che, con il tasso di crescita della Nigeria, oggi potrebbero essere circa un milione e mezzo, senza contare i profughi). In dodici anni l’insurrezione armata di Boko Haram ha provocato 35.000 morti e più di 2,5 milioni di sfollati, una catastrofe che ha travolto centinaia di comunità in tutto il bacino del Lago Ciad, cambiando radicalmente la vita di decine di milioni di persone. Una guerra che ha avuto in Maiduguri il suo epicentro, il suo cuore pulsante, la sua capitale.
Oggi Boko Haram si chiama Iswap (Provincia dello Stato Islamico nell’Africa occidentale) e dalla caduta dell’Isis in Medio Oriente non si capisce più che fine abbia fatto la sua affiliazione a Daesh, annunciata nel 2015 dall’allora leader Aboubakar Shekau. Molti dicono che sia alle porte di Maiduguri, che tutt’attorno sventolino le bandiere nere e che i miliziani stiano solo aspettando il momento giusto per attaccare. I campi profughi della città brulicano di gente spaventata, traumatizzata, dalle esistenze dilaniate, pronte all’ennesima fuga verso l’ignoto. Persone, non cristiani o musulmani: tutti sono in pericolo. Il clima è pesante e alla disperazione delle tendopoli stipate di gente in fuga dai villaggi si somma il senso di vuoto di chi ancora ha una specie di routine quotidiana. La paura serpeggia ed è questo che fa il terrorismo: instilla la paura nel dubbio. È l’abisso.
Milizie di autodifesa
I cristiani vivono nella costante paura di essere ammazzati: un kamikaze, un uomo armato, una bomba in un mercato vicino alla parrocchia, non si sa come, ma prima o poi succederà. Ma nemmeno i musulmani dormono tranquilli: i miliziani dell’Iswap li accusano di non credere abbastanza, di essere stati corrotti dai cristiani, di doversi redimere. E corrompono a loro volta: dove lo Stato nigeriano è assente, Boko Haram è presente, paga stipendi ai suoi membri e garantisce alle loro famiglie una rete di carità e di servizi perversa e pericolosa, una china scivolosa in cui finire. Nei campi degli sfollati, invece, spesso l’unica fonte di sopravvivenza è la Chiesa, che fornisce razioni di cibo, istruzione gratuita e nel migliore dei casi un alloggio. Per gli altri ci sono le tende di fortuna, i ripari di plastica e lamiera, zanzariere e materassi accatastati, binari dei treni divelti e ombrelloni di fortuna, una desolazione deprimente.
Le faide interne che hanno caratterizzato la storia di Boko Haram si rispecchiano nella violenza che i testimoni delle loro violenze raccontano, e nella città di Maiduguri, nella società urbana, la cosa migliore che Boko Haram ha prodotto sono le milizie civili come la Civilian Joint Task Force. Si tratta di gruppi di cittadini bene armati e male addestrati che sopperiscono, o ci provano, alle lacune dell’esercito: formalmente le milizie possono solo fermare, arrestare e consegnare i sospetti all’esercito, ma la verità è che la violenza e le armi sono più forti delle buone intenzioni, a Maiduguri, e quella costante sensazione di persecuzione è un carburante troppo esplosivo per non fare effetto.
Catastrofe umanitaria
Nel 2002, il predicatore Mohammed Yusuf fondò il gruppo Boko Haram a Maiduguri, stabilendo una moschea e una madrasa in una città litigiosa per questioni religiose da almeno una cinquantina d’anni. Nel luglio del 2009 esplose la violenza tra le forze di polizia e i membri di Boko Haram: la miccia furono dei futili motivi burocratici per un corteo funebre, occasione che tuttavia rivelò grandi capacità militari e di approvvigionamento del gruppo. L’anno dopo comparve per la prima volta in un video Abubakar Shekau, sanguinario leader del gruppo fino alla sua morte, nel maggio scorso. Il 14 maggio 2013 l’allora presidente nigeriano Goodluck Jonathan dichiarava lo stato d’emergenza nel nord-est del Paese, Stato di Borno compreso. A Maiduguri non è mai stato revocato e spesso di notte è ancora in vigore il coprifuoco. Alla fine di gennaio del 2015 una coalizione militare di Nigeria, Ciad, Camerun e Niger lanciava una controffensiva per contrastare l’egemonia di Boko Haram nell’area del Lago Ciad, ma le stragi, i rapimenti e gli scontri armati sono continuati a fasi alterne fino ad oggi. Centinaia gli studenti rapiti; l’Unicef sostiene essere migliaia i bambini, talora anche utilizzati in attacchi suicidi, che si trovano ancora “dietro le linee nemiche” di Boko Haram. Secondo i dati dell’Ocha (l’Ufficio di coordinamento degli affari umanitari delle Nazioni Unite), attualmente sono 7,7 milioni le persone con un disperato bisogno di assistenza immediata. Per metà sono bambini.
Minaccia costante
La foresta di Sambisa è circa 60 chilometri a est di Maiduguri: semiarida e a vegetazione rada di arbusti spinosi, difficili da penetrare. È qui che Boko Haram ha oggi la sua roccaforte, in particolare nella zona montuosa di Gwoza, ed è qui che Shekau ha trovato la morte nel maggio del 2021, poco prima che Boko Haram fosse inglobata in Iswap dopo una sanguinosa guerra di posizione.
Un fatto che ha scatenato un fenomeno forse inaspettato e per certi versi nuovo: dalla morte di Abubakar Shekau migliaia di persone ex-Boko Haram si sono arrese alle autorità nigeriane. Ad oggi le autorità locali stimano in quasi 14.000 i “terroristi” e le loro famiglie (comprese quasi 4.000 donne e circa 6.000 bambini) che si sono consegnati alle truppe dell’esercito regolare nigeriano.
La loro destinazione “provvisoria” tuttavia crea un altro problema: gli sfollati nei campi di Maiduguri sono molto poco inclini ad accogliere i loro ex-aguzzini, che tuttavia è proprio qui che dovranno reinserirsi alla vita civile. Lo sforzo, delle scuole cattoliche e delle madrase di Maiduguri, è dare a tutti un’opportunità creando con l’educazione un argine alla violenza. Il pericolo, con la morte di Shekau e la “fine” di Boko Haram, non è cessato: il Califfato che Iswap sta creando, a pochi chilometri da Maiduguri, preoccupa i civili in città, che condividono quotidianamente la paura per la minaccia costante.
Una minaccia che sembra mutare sempre senza finire mai.
Questo articolo è uscito sul numero 1/2022 della Rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop