Sud Sudan, dopo quattro anni l’accordo di pace non ha portato stabilità

di claudia
Salva Kiir, e Riek Machar

di Tommaso Meo

Quattro anni dopo la firma, l’accordo di pace in Sud Sudan ha disatteso le promesse di migliorare le condizioni di vita della popolazione garantendo unità e stabilità al Paese. L’accordo di pace “rivitalizzato” è stato siglato il 12 settembre 2018 per porre fine alla guerra iniziata nel 2013 tra i gruppi rivali guidati da Salva Kiir, ora presidente, e Riek Machar, primo vicepresidente del Paese. Il conflitto ha provocato quasi 400.000 morti e milioni di sfollati, ma grazie all’accordo i due nemici stanno condividendo il potere in un governo di unità nazionale inaugurato nel febbraio 2020.

Questo compromesso finora non ha però portato la pace e la stabilità tanto agognate dai sud sudanesi, tra violenze che continuano e una volontà politica che sembra mancare. Molte disposizioni dell’accordo del 2018 rimangono non attuate a causa delle controversie in corso tra i due rivali. A dimostrazione degli ostacoli che il Sud Sudan deve ancora superare per trovare pace, il periodo di transizione che doveva portare il Paese alle elezioni nel 2023, dopo diversi rinvii, è stato prorogato di 24 mesi all’inizio di agosto per la mancanza di progressi su molte disposizioni dell’accordo. Una scelta che non è stata apprezzata da alcuni importanti partner stranieri.

I rappresentanti di Stati Uniti, Regno Unito e Norvegia, la “troika” che ha sponsorizzato l’indipendenza del Paese nel 2011, hanno boicottato l’incontro in cui è stata annunciata l’estensione. In una lettera al presidente Kiir, hanno criticato il fatto che tutte le parti interessate non fossero state consultate. A metà luglio, gli Stati Uniti si erano già ritirati da due organismi di monitoraggio del processo di pace a causa della “mancanza di progressi” e di un indirizzo chiaro da parte dei leader del Paese.

Secondo Thor Youanes, attivista della società civile che lavora nello stato meridionale di Unity, intervistato da Radio France Internationale (Rfi) “il processo di pace è noto solo a Juba (la capitale, Ndr) perché la pace non è mai stata resa popolare. Come attivisti, chiediamo che sia spiegato alla gente”.

Tra le poche note positive da segnalare, alla fine di agosto ha ottenuto i gradi il primo contingente delle forze armate unificate, una disposizione centrale dell’accordo. Questi primi 21.000 soldati, secondo il consigliere per la sicurezza Lul Gatkuoth Gatluak, “rafforzeranno la capacità del governo di transizione di proteggere i propri cittadini limitando la violenza subnazionale e intercomunale”, dimostreranno “il rispetto dei diritti umani” da parte del Sud Sudan “garantendo l’integrità territoriale del Paese”.

Tuttavia, dall’indipendenza ottenuta dal Sudan nel 2011, il Paese più giovane del mondo è afflitto da violenze politico-etniche e da instabilità cronica che continua tuttora. Solo la scorsa settimana le Nazioni Unite hanno dichiarato che circa 173 civili sono stati uccisi e 37 rapiti in quattro mesi di combattimenti in Sud Sudan tra fazioni fedeli al presidente Kiir e al vice presidente Machar, con molti casi di violenza sessuale segnalati.

Tirando le somme, in occasione della proroga del periodo di transizione, il generale Charles Tai Gituai, a capo della commissione di monitoraggio dell’accordo di pace, ha commentato che “molto resta da fare in tutti i capitoli dell’accordo, in particolare nell’elaborazione della costituzione permanente, nelle riforme legislative e nei preparativi necessari per elezioni”. Ora, ha aggiunto, servono risultati veloci, che diano dividendi alla popolazione sud sudanese.

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