Un vertice per il futuro non solo dell’Africa

di claudia

di Michele Vollarodirettore responsabile rivista Africa

Dal 7 al 18 novembre si riuniscono, per la ventisettesima volta in 27 anni, i delegati di quasi 200 Paesi di tutto il mondo per partecipare alla Conferenza delle parti, la cosiddetta Cop27, della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc). L’incontro delle parti, cioè degli Stati che hanno ratificato il trattato di Rio che nel 1992 per primo si poneva l’obiettivo di ridurre le emissioni climalteranti, si svolge quest’anno a Sharm el-Sheikh, in Egitto.

Non è la prima volta che il vertice viene organizzato in un Paese africano. Ben quattro sono i precedenti: due a Marrakech in Marocco, nel 2001 e di nuovo nel 2016, e poi una volta rispettivamente in Kenya, a Nairobi, nel 2006, e in Sudafrica, a Durban, nel 2011. Eppure molti hanno già definito l’edizione di quest’anno la “Cop dell’Africa”, sostenendo che il successo dell’incontro sarà dato dalla capacità o meno di soddisfare i bisogni del continente che, pur avendo contribuito di meno alle emissioni inquinanti, è tuttavia il più vulnerabile alle conseguenze negative dei cambiamenti climatici. L’appuntamento di quest’anno assume però un rilievo ancora maggiore, se gli scienziati del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) hanno concluso il loro ultimo rapporto dichiarando apertamente che «senza un’azione immediata ed epocale in termini di riduzione dei gas ad effetto serra in tutti i settori» non si potranno mai centrare gli obiettivi che si è fissata la comunità internazionale.

La posizione dei negoziatori africani non potrà prescindere dalla richiesta di mantenere l’impegno preso in occasione della Cop15 di Copenaghen, quando era stato promesso che, a partire dal 2020, ogni anno si sarebbero dovuti destinare almeno 100 miliardi di dollari a iniziative di adattamento nei Paesi più poveri come compensazione per l’inquinamento causato in passato dai Paesi più avanzati. Si tratta comunque di un obiettivo minimo, poiché l’Ipcc ha precisato che, per rispondere al fabbisogno di adattamento dei Paesi in via di sviluppo, sono invece necessari tra 140 e 300 miliardi di dollari l’anno fino al 2030, dopodiché la cifra aumenterà ancora, per essere compresa tra 280 e 500 miliardi ogni anno. Eppure anche l’obiettivo di pretendere il rispetto di un impegno preso tredici anni fa rischia di rivelarsi una chimera, quando l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha certificato che soltanto l’80% dei finanziamenti annunciati è stato effettivamente stanziato e l’Africa subsahariana è a oggi destinataria di meno del 5% dei flussi finanziari globali per il clima.

A tutto ciò, bisogna poi aggiungere gli interrogativi sul futuro delle politiche di transizione energetica in molti Paesi occidentali a seguito dell’invasione russa in Ucraina, quando è emersa la volontà di sostituire le importazioni di fonti energetiche con altri fornitori, spesso africani, che in gran parte devono però ancora avviare le operazioni di sfruttamento e, quindi, anche installare quasi da zero tutte le infrastrutture necessarie allo sfruttamento di fonti fossili. Una situazione di certo complessa, in cui le esigenze di sviluppo degli uni non sempre combaciano con le sollecitazioni politiche ed economiche degli altri.

Insomma, se l’Africa è stata descritta negli ultimi anni come il continente del futuro, allora la Cop di Sharm el-Sheikh non è soltanto la Cop dell’Africa, ma un momento decisivo per il futuro di tutti.

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