Grazie comunque Marocco

di claudia

Di Claudio Agostoni

Non è stata una favola né un miracolo. L’exploit della nazionale marocchina ai mondiali di calcio in Qatar è frutto di fattori concreti, che spaziano dall’antropologia alla politica, passando per una programmazione illuminata. Ecco com’è nata l’impresa calcistica della nazionale africana

Qualcuno l’ha definito un sogno, altri un miracolo. Il successo della nazionale marocchina ai mondiali di calcio in Qatar invece è legato a fattori molto più concreti, che spaziano dall’antropologia alla politica, passando per per una (ai più inaspettata) programmazione. Non è stato un successo che ha scaldato solo i cuori dei marocchini. A supportare i Leoni dell’Atlante c’erano anche l’entusiasmo e la speranza delle popolazioni “dal Golfo all’Oceano”, un virgolettato che rimanda alla storica denominazione del panarabismo trionfante negli anni ’50. Da Doha a Gaza e da Idlib a Tunisi, passando per Khartoum e persino Algeri, donne e uomini dai 7 ai 77 anni, grazie ai giocatori del ct Walid Regragui, hanno avuto un raro incontro con la speranza.

Dopo la vittoria con la Spagna i Leoni dell’Atlante sono stati adottati dall’entusiasmo delle popolazioni arabe e africane. I calciatori marocchini che a fine partita festeggiavano le vittorie ballando abbracciati alle loro madri, donne con il capo coperto e lunghe tuniche fino ai piedi che sembravano piovute lì da un passato remoto, non potevano non rimandare alla mente le hit di artisti loro coetanei che sfornano canzoni rap e trap con testi aspri e bellicosi, tranne quando parlano delle loro mamme. Cantanti che, come i calciatori del Marocco (ben 16 dei 26 giocatori selezionati), spesso nella terra dei loro genitori non ci sono nemmeno nati. È il caso di Yassine Bounou, il portiere para tutto, nato in Canada ma trasferitosi da bambino in Marocco, patria dei genitori, dove è è cresciuto con la maglia del glorioso Wydad Casablanca. Achraf Hakimi, una delle stelle della squadra, un laterale tutta fascia rimpianto dai tifosi interisti, è nato in Spagna e oggi gioca nel Paris Saint-Germain con Kylian Mbappé (avrebbe potuto scegliere di giocare con la nazionale iberica, ma ha optato per il paese dei genitori sin dall’Under 20). E poi Noussair Mazraoui, nato da genitori emigrati in Olanda e calcisticamente cresciuto nell’Ajax. Certificato di nascita olandese anche per Sofyan Amrabat (da ragazzo vestì la casacca della Nazionale Orange dell’Under 15, poi gettata alle ortiche per indossare quella marocchina dell’Under 17) e per Hakim Ziyech, il Maradona del Maghreb, nato a Dronten (Olanda), da genitori marocchini. Senza dimenticare Walid Cheddira, nato all’ombra del Santuario di Loreto e ora consacratosi col Bari in serie B.

Tifosi marocchini a Doha celebrano la vittoria contro la Spagna, agli ottavi di finale del Mondiale di calcio in Qatar (Foto di MAHMUD HAMS / AFP)

Il Marocco, va ricordato, è solo la punta di un iceberg. Le Nazionali moderne sono figlie di una diaspora globale: su 32 squadre circa il 9% dei calciatori è figlio di una terra differente ed è arrivato a giocare il Mondiale per necessità o per pressione familiare. Nel caso olandese, una dei Paesi più rappresentati da questa nuova diaspora, c’entra anche il sostrato razzista che in alcuni casi accompagna la crescita di questi ragazzi in zone che li considerano “feccia”. Va evidenziato anche un altro elemento. Nel 2018 (ultimo dato ufficiale disponibile) i marocchini all’estero erano stati stimati in 4,2 milioni, circa il 10 per cento della popolazione totale del paese. Il fatto che molti calciatori dei Leoni dell’Atlante siano figli di immigrati di seconda generazione e giochino nei più importanti campionati europei ha ovviamente aiutato il lavoro del loro coach, Walid Regragui. Nato nella banlieu parigina, come calciatore ha giocato in Francia, ma in nazionale ha indossato solo la maglia del Marocco e la sua carriera di allenatore si è svolta tutta nel Paese nordafricano. Ha saputo portare sul campo la rabbia sportiva di una storia di lotta millenaria. Si è ribellato alla stampa del nord del mondo che lo accusava di difensivismo. “Non è stato un mondiale di squadre votate all’attacco” ha giustamente osservato “Perchè solo alle squadre africane non basta vincere, ma devono anche giocare bene secondo i loro parametri?”. Ma, ultimo ma non ultimo, ha potuto sfruttare gli investimenti che Mohammed VI ha fatto nell’universo calcistico marocchino. Da una parte, grazie ad una organizzatissima e capillare rete di scouting, c’è stata la volontà di andare a cercare talenti ovunque, nei più remoti angoli rurali o nella diaspora. Dall’altra, la creazione dell’Accademia calcistica Mohammed VI, una sorta di Coverciano in salsa marocchina. Nata da una idea dello stesso sovrano, che l’ha finanziata con un investimento del corrispettivo di circa 13 milioni di euro, ha aperto i battenti nel 2009 nella periferia di Rabat, a Salè.

L’idea era di dotare il Marocco di una centrale di formazione nazionale, all’avanguardia in tutto – dalle infrastrutture al coaching – simile a quelle dei grandi club europei. Fu un successo, che portò nel giro di qualche anno all’apertura di strutture analoghe a Tangeri, Agadir e Saïdia. Un’iniziativa, senza precedenti per il Nord Africa, che ha dato i suoi frutti.

Condividi

Altre letture correlate: