di Enrico Casale – foto di Jean-Philippe Ksiazek /Afp
Dopo tanti rinvii per la pandemia è tornata nel deserto del Marocco una corsa leggendaria. Marathon des Sables: la gara estrema per eccellenza. Si corre per oltre 250 chilometri in totale autosufficienza nel deserto, infuocato e fantastico, del Sahara marocchino. Fra tempeste di sabbia e tappe massacranti. È un miraggio per molti, un sogno per qualcuno, un traguardo per pochi
Caldo, sudore, fame e tanta fatica. La Marathon des Sables, una delle corse più estreme del pianeta, è questo e anche di più. È una gara estrema nella quale si mescolano la passione e il gusto della sfida impossibile, la preparazione atletica e la ricerca dei propri limiti. Tra le competizioni podistiche che vengono organizzate in Africa – ormai tante –, The Legendary, “la leggendaria” (così viene chiamata dagli appassionati) mantiene un fascino inalterato, con i suoi 250 chilometri da percorrere nel deserto del Sahara partendo dal Marocco. Basti pensare che all’ultima edizione, la scorsa primavera, si sono presentati al nastro di partenza più di 900 partecipanti, da una quarantina di Paesi diversi (in 801 hanno completato la gara, gli altri si sono ritirati per una tempesta di sabbia o le vesciche ai piedi). Atleti che hanno accettato di sfidare il deserto a temperature di oltre quaranta gradi centigradi.
In trentasei anni si sono verificati tre incidenti mortali, l’ultimo nel 2021, costato la vita a un concorrente di nazionalità francese di cinquant’anni, stroncato da un arresto cardiaco. Ma da dove nasce l’aura che avvolge questa competizione così estrema?
La storia
La Maratona delle Sabbie viene organizzata per la prima volta nel 1986 dal corridore Patrick Bauer (tutt’oggi patron e direttore della gara). Due anni prima, Bauer, allora ventottenne, aveva decide di andare nel Sahara per provare ad attraversare una distesa di 350 chilometri di deserto disabitato. Aveva voluto affrontare la sfida a piedi e da solo. Un’impresa estrema, sapendo che non si sarebbe mai imbattuto in un villaggio, un’oasi o un pozzo. Per unico compagno, uno zaino del peso di 35 chili, contenente acqua e cibo. La sua marcia dura una dozzina di giorni. L’esperienza lo entusiasma. E, come molti pionieri, decide di andare oltre, creando una vera e propria gara.
Detto fatto. Nel 1986 si presentano ai nastri di partenza 23 pionieri (tra cui due donne). Anch’essi, zaino in spalla, pronti a tutto. Non sanno che i loro passi nella sabbia rappresentano l’inizio di un evento leggendario, oggi immancabile nel programma dei grandi raduni di sport d’avventura. La prima edizione è vinta da Michel Galliez negli uomini e Christiane Plumere nelle donne.
Un veterano
La competizione si svolge nel sud del Marocco in autosufficienza alimentare. Ogni concorrente deve cioè portarsi il cibo sulla schiena per una settimana. L’organizzazione si fa carico solo di fornire l’acqua. I corridori devono percorrere una distanza di circa 240 chilometri suddivisa in sei tappe. Il percorso comprende tutti i tipi di terreno: dune di sabbia, distese pietrose, wadi secchi, palmeti, piccole montagne. «La Marathon des Sables – spiega Marco Olmo, cuneese, 22 volte alla partenza e tre terzi posti ottenuti – è una gara massacrante. A mio parere non è il caldo la difficoltà principale, quanto la gestione dello sforzo e della dieta. Bisogna saper regolare bene la quantità di cibo da portare e come assumerlo. Io non ho mai avuto problemi a mangiare anche sotto sforzo, ma altri corridori devono fare i conti con questo problema e quindi per loro nutrirsi è più complesso. Se non ti alimenti bene e, soprattutto, non bevi molto, difficilmente puoi arrivare al traguardo».
Secondo Olmo, anche le asperità del terreno non vanno sottovalutate. «Solo alcuni tratti sui laghi salati permettono di correre senza problemi», osserva. «Il resto sono grandi pietraie, dune di sabbia dove non è facile tenere un’andatura costante e veloce. Bisogna quindi sempre tenere presente che non si tratta di una gara in pista o su strada asfaltata, ma su un terreno accidentato che mette a dura prova le articolazioni e il fisico in generale».
La preparazione
Ogni maratoneta vive le sei tappe di gara in totale autonomia, fatta eccezione solo per la tenda e l’acqua, e per questo motivo diventa già essenziale il ruolo dello zaino. Prepararlo è complicato proprio perché tra cibo e attrezzature serve la massima programmazione. Ogni dettaglio dimenticato può complicare una traversata già di per sé proibitiva. «Preparare bene lo zaino è fondamentale», continua Olmo. «Personalmente, oltre al sacco a pelo e a pochi indumenti, porto cibo secco di poco peso, ma che fornisce molte calorie. Proprio le calorie sono indispensabili per reggere l’urto della fatica». Anche la preparazione fisica è importantissima. Richiede un’attenzione e una costanza quasi maniacale. «Io non sono mai stato un maratoneta professionista», ricorda Olmo. «Ho sempre lavorato per mantenermi. Prima di andare in pensione, mi allenavo un’ora e mezza tutti i giorni. Poi, ogni dieci-dodici giorni, correvo una “lunga”, cioè affrontavo un tragitto di cinque-sei ore sulle mie montagne, quelle tra Piemonte e Liguria. Qualche sponsor mi ha aiutato a sostenere i costi della gara e del viaggio. Mi ha aiutato a partecipare, altrimenti non ce l’avrei fatta».
Dopo tanti rinvii e restrizioni globali dovuti alla pandemia da coronavirus, è tornata protagonista nel calendario delle competizioni e nei sogni di tanti atleti. Per organizzare la gara c’è un meccanismo ben oliato. Lo staff dispone di un ospedale da campo e di tre elicotteri, oltre alle tende (450) e a 120.000 litri d’acqua che sono forniti agli ardimentosi che accettano la sfida. «Questa gara, lo ripeto, è impegnativa», insiste Olmo. «Chi vi partecipa, però, non è abbandonato a sé stesso. L’organizzazione sostiene i partecipanti in ogni fase».
Vivo per miracolo
Che la gara sia estrema lo conferma anche la storia pazzesca che nel 1994 coinvolge un partecipante italiano, Mario Prosperi. L’allora 38enne romano vive una vera e propria odissea. A causa di una forte e improvvisa tempesta di sabbia durante la quarta tappa, l’agente di polizia si perde, non riesce più a ritrovare l’orientamento. Sparisce nel nulla. Lo cercano in ogni anfratto lungo il tragitto. Invano. L’organizzazione suggerisce addirittura alla famiglia di avviare le pratiche di morte presunta. Dieci giorni dopo, lui però compare, stremato, in un accampamento di nomadi tra il Marocco e l’Algeria. «Temevo di non farcela», commentò Prosperi dopo la riapparizione, «ma mi sono imposto di rimanere lucido». Evidentemente disidratato e dimagrito di 15 chili, l’atleta si salva riparandosi in una tomba e usando una bandiera italiana per segnalare la sua presenza a eventuali velivoli. L’uomo brucia poi zaino e sacco a pelo sempre per lo stesso motivo ma, dopo due giorni, sceglie di incamminarsi. Sopravvive fortunosamente mangiando bisce, lucertole ed erbacce, lasciando dietro di sé alcuni oggetti come tracce e infine trovando i nomadi. Anche questa è la Marathon des Sables.
Questo articolo è uscito sul numero 5/2022 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.