di Camille Laffont – foto di Florent Vergnès / Afp
La Repubblica Centrafricana è uno dei Paesi più instabili e poveri del mondo. Ma Soumaila Zacharia Maidjida ha una sola preoccupazione: riportare ai fasti di un tempo il circolo equestre imperiale.
Da non credere. Nel bel mezzo di una strada polverosa di Bangui, tra edifici fatiscenti e auto malconce, uno stallone marrone incede con andatura solenne. A tenere le redini del cavallo è un uomo ben noto nella capitale della Repubblica Centrafricana: Soumaila Zacharia Maidjida, detto “Dida”, ex velocista che ha stabilì il record nazionale per gli 800 metri alle Olimpiadi di Barcellona del 1992 e lo mantiene tutt’oggi.
Uno strano desiderio
Il cavaliere dagli occhi scintillanti è un grande appassionato di equitazione: passione insolita in un Paese tra i più poveri e instabili al mondo. La Repubblica Centrafricana, indipendente dal 1960, è sprofondata nel caos all’inizio dal 2013 con l’espulsione dell’ex presidente Francois Bozizé da parte dei ribelli Seleka, che ha scatenato una spirale di violenza tra milizie musulmane e cosiddette cristiane. Migliaia di persone hanno perso la vita nella guerra civile, la popolazione è vittima di saccheggi e violenze, tuttora l’80% del territorio è sotto il controllo di gruppi armati, le speranze suscitate dagli accordi di pace del febbraio 2019 sono state tradite e negli ultimi mesi la situazione di sicurezza si è ulteriormente deteriorata. Inoltre la pandemia di covid-19 ha messo a nudo le fragilità sanitarie di una nazione collocata tristemente all’ultimo posto nell’Indice di sviluppo umano, con un’aspettativa di vita alla nascita di soli 51.
In un Paese tanto malandato fa un certo effetto parlare di cavalieri e stalloni. Ma Dida non si trova affatto fuori posto. «Tutti mi conoscono – con malcelato compiacimento –. Quando ministri e capi tradizionali vogliono uscire a cavallo, chiamano me». Dida sogna di creare un centro ippico a Bangui, ma ammette che il suo proposito oggi è una chimera. «Al momento non ci sono le condizioni, ma lavoro con tenacia per rilanciare anche nel cuore dell’Africa la nobile arte dell’ippica», chiarisce l’uomo, che per sfamare i suoi puledri lavora come guardiano.
Giorni di gloria
Il cavallo ha una storia travagliata nella Repubblica Centrafricana, Paese senza sbocco sul mare che ha ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1960 ma che da allora è stato travagliato da guerre, crisi umanitarie e colpi di Stato. «Per molti, qui, il cavallo è associato alle incursioni delle bande di predoni che attraversano il confine dal Ciad o dal Sudan in groppa ai loro destrieri».
I cittadini più anziani, tuttavia, ricordano i giorni di gloria di Jean-Bédel Bokassa, presidente e poi imperatore del Centrafrica, rimasto al potere dal 1966 al 1979. Bokassa aveva una passione smisurata per i cavalli. Nel 1997, in occasione della sua fastosa cerimonia di incoronazione, fece arrivare da Parigi una dozzina di purosangue incaricati di tirare una carrozza in bronzo e oro. Due cavalli morirono per un colpo di calore sotto il sole tropicale. Altrettanti perirono per malattie da insetti e parassiti. Il resto finì nelle scuderie imperiali. Di tanto in tanto Bokassa sfilava per le strade di Bangui sulla sua carrozza scintillante, scortato da guardie a cavallo che con il loro incedere elegante incutevano nella popolazione un timore reverenziale.
«Io ero bambino e sgattaiolavo tra la folla per conquistarmi un posto in prima fila – ricorda Dida –. Osservavo quei cavalieri in abiti sontuosi e restano a bocca aperta». L’interesse per i cavalli aveva contagiato la popolazione. «All’epoca Bangui aveva due rinomati centri ippici: uno era per l’alta società, essenzialmente expat francesi e membri della famiglia imperiale, l’altro era per il pubblico popolare», sospira nostalgico Auguste, che in gioventù possedette un cavallo arabo. «Durante i fine settimana, i giovani del quartiere si facevano unaatagaloppo per pochi franchi. All’epoca era l’unica attività di svago».
«La bellezza ci salverà»
Nel 1996, i giorni di gloria dei cavalli centrafricani giunsero alla fine. L’esercito si ammutinò, innescando un ciclo di violenza e instabilità da cui il Paese non si è mai ripreso. Le scuderie imperiali, nel frattempo passate sotto il controllo dello Stato, furono saccheggiate. Anche i due centri ippici di Bangui furono abbandonati. I cavalli vennero razziati e venduti all’estero… o macellati e poi proposti a pezzi nelle bancarelle del mercato.
«Mi offrirono una grossa somma di denaro per vendere il mio cavallo a un macello. All’epoca ero al verde, la mia famiglia soffriva la fame – racconta Auguste –. Oggi, quando ci penso, mi sento davvero male». Dida è riuscito a salvare alcuni degli animali destinati a morte sicura. «Li ho nascosti in luoghi sicuri durante le violenze che hanno sconvolto la capitale e tra mille difficoltà sono riuscito a sfamarli», racconta, senza svelare i nomi dei complici che lo hanno aiutato. «Non avrei mai sopportato di vedere i nostri splendidi puledri trasformati in bistecche. I cavalli sono ciò per cui vivo, non posso farne a meno», aggiunge.
Oggi accarezza l’ambizioso progetto di ripristinare le scuderie e i maneggi dell’epoca imperiale. Accanto a lui c’è Jean-Bosco, un capitano dell’esercito, che vorrebbe far rivivere la guardia a cavallo. «Abbiamo bisogno di scrollarci di dosso le disgrazie che da decenni affliggono il nostro Paese. Non dobbiamo guardare al nostro passato con nostalgia. Ma cercare ispirazione nella nostra storia per guardare avanti. La bellezza e l’eleganza dei cavalli possono aiutarci a ritrovare fiducia nel futuro».
L’uomo ha già rispolverato uno splendido giubbotto rosso, in testa indossa un chepì, un copricapo militare di forma cilindrica con una lunga piuma. Alla cintura ostenta una sciabola luccicante. «Sto prendendo lezioni di equitazione – confessa –. Vorrei sfilare per la prossima parata militare e salutare il capo dello Stato da cavallo. Spero di riuscire a convincere i miei superiori».
Questo articolo è uscito sul numero 6/2022 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop