Noi, sopravvissute all’inferno di Boko Haram

di claudia

di Céline Camoin – foto di Simon Townsley Ltd / Luz

Testimonianze di donne sequestrate e fuggite dal più efferato gruppo terroristico in Africa. «I miei aguzzini volevano che mi facessi saltare in aria». «Sono stata costretta a sposarmi e a convertirmi all’islam». «Mi hanno ridotta a schiava sessuale». I terrificanti racconti di donne rapite dai jihadisti nel nord della Nigeria e regioni limitrofe. Ma ce ne sono anche che hanno scelto di unirsi ai terroristi.

Lacrime, incubi, insonnia. Ferite psicologiche, lesioni fisiche. Hanno la vita salva, ma non saranno mai libere dai traumi inflitti, le giovani donne, principalmente nigeriane ma anche camerunesi e nigerine, che negli ultimi anni sono state sequestrate o aggredite dal gruppo terroristico Boko Haram e da altre milizie o gruppi di banditi nella Nigeria settentrionale. Sono passati più di nove anni dalla vicenda delle studentesse di Chibok, 276 ragazze di età compresa tra i 16 e i 18 anni, rapite in una scuola secondaria dello Stato nigeriano di Borno nell’aprile del 2014, ma Boko Haram non è stato sconfitto né sono diminuite le violenze sui civili e in particolare sulle donne.

Terroristi spietati
L’episodio fece scalpore a livello planetario, il collettivo #BringBackOurGirls si è fatto notare fino ai vertici delle Nazioni Unite, ma il fenomeno dei rapimenti delle donne e delle ragazze continua a flagellare il nord della Nigeria e tutta l’area transfrontaliera in cui la milizia islamica si è consolidata. Boko Haram è un’organizzazione terroristica jihadista attiva nel nord della Nigeria dal 2003. Alcuni la definiscono setta: è nata dalla predicazione di Mohammed Yusuf, formatosi in Arabia Saudita, che denunciava la corruzione dello Stato nigeriano e strumentalizzando le divergenze tra sud e nord del Paese – quest’ultimo non trae beneficio dai proventi petroliferi. La radicalizzazione del movimento è avvenuta tra il 2009 e il 2011. 
L’incarcerazione di Yusuf non ha fermato il movimento, passato nelle mani di Abubakar Shekau nel 2010. La morte di Shekau è stata annunciata diverse volte negli ultimi anni, ma non ha mai avuto conferma. In ogni caso non ha arrestato il calvario delle donne.

Bambina kamikaze
Aisha, 20 anni, è una di queste giovani vittime. All’età di 16 anni è stata rapita da uomini di Boko Haram. Per aver rifiutato di sposare uno dei suoi aguzzini, è stata costretta a indossare una cintura esplosiva e portata nei pressi di un check-point militare.  «Avvicinati il più possibile e aziona la cintura», le fu ordinato. Aisha non ci riuscì e si arrese invece alle forze armate. Anna, foto…, invece aveva solo 10 anni quando l’hanno presa i terroristi. Per anni è stata costretta ad assistere e a partecipare ad attacchi e uccisioni. Stessa sorte per Fatou, presa nella morsa di Boko Haram cinque anni fa, quando ne aveva solo 12. Doveva essere una “bambina kamikaze”, ma è riuscita a fuggire prima dell’ultimo sacrificio.
Soltanto pochi mesi fa, l’operazione di salvataggio Hadin Kai del comando delle Forze armate nigeriane ha tratto in salvo due delle ragazze di Chibok tuttora in mano ai rapitori. Si trovavano nella foresta di Sambisa, il c dei terroristi.

«Dieci mesi di terrore» 
Hauwa Joseph e Mariam Dauda, questi i loro nomi, sono state salvate entrambe con i figli partoriti in cattività. Le ragazze hanno raccontato di essere state costrette a sposare comandanti del gruppo islamista, ma che l’esercito nigeriano mesi fa ha ucciso i loro mariti, padri dei figli. Mariam ha raccontato che quando è stata rapita aveva 18 anni ed era cristiana: durante la prigionia è stata convertita con la forza e data in sposa a un miliziano: «Ci sono ancora altre ragazze di Chibok nella foresta di Sambisa. Anche loro sono sposate, più di venti sono ancora là», ha raccontato Mariam elencando i nomi di qualcuna di loro.
Halima, foto…, ha visto suo marito farsi decapitare e suo fratello farsi uccidere da combattenti di Boko Haram. Ha trascorso quattro anni ostaggio dei miliziani prima di poter scappare e di raggiungere un campo profughi. «Avevamo perso ogni punto di riferimento. Non sapevamo nemmeno dove ci trovavamo». Ha passato dieci mesi chiusa in un riparo nella foresta, assieme ad altre adolescenti, la giovane Alika, allora tredicenne. Sequestrata mentre raccoglieva legna, è stata sistematicamente sottoposta a stupri collettivi.

Figlie della vergogna
Nel 2015, i militari conducono un raid e trovano le ragazze, ma le accusano di connivenza con i miliziani. «Ci hanno fatto sdraiare sulla strada dicendo che il carro ci sarebbe passato sopra se non dicevamo la verità. Ero terrorizzata. C’erano armi ovunque», ha raccontato in un servizio di France 24. Ad Alika e alle sue compagne di prigionia è toccato il carcere.
Otto mesi dietro le sbarre, e durante la detenzione la nascita di una bimba, frutto di uno dei numerosi stupri subiti. L’aborto è illegale in Nigeria, tranne quando la vita è a rischio, il che significa che le vittime di stupro non hanno accesso a un’interruzione volontaria di gravidanza sicura e legale. Per la piccola figlia di Alika, la speranza di crescere accanto ai familiari è peraltro un sogno impossibile. I suoi parenti, come molte famiglie di persone rapite o arruolate da Boko Haram, non l’accettano più.
Figlie indesiderate, un reinserimento nella società molto difficile: è la sorte di queste vittime del jihadismo. Molte vivono ormai in campi profughi come quello dello stadio della città di Maiduguri, capitale del Borno, che ospita circa 12.000 civili fuggiti dalle violenze di Boko Haram. Complessivamente, si stima in più di due milioni il numero di sfollati a causa di Boko Haram nella sola Nigeria.

AFP FOTO / Florian PLAUCHEUR

Schiave sessuali
Nell’estremo nord del Camerun, dove Boko Haram regolarmente effettua incursioni violente e spesso letali, l’attivista Marthe Wandou si occupa di difesa dei diritti delle donne. Attraverso la sua associazione, Aldepa (Action locale pour un développement participatif et autogéré) fornisce sostegno psicologico e sociale alle vittime di Boko Haram, aiutandole anche a ritrovare un’autonomia economica con attività di formazione. «Molte di loro pensano che vivere non sia più possibile. Sono state costrette al matrimonio, trasformate in schiave sessuali», racconta. Le fa eco la scrittrice camerunese Djaïli Amadou Amal, da anni in prima linea nel denunciare i soprusi dei jihadisti subiti dalle donne, che parla delle violenze sulle donne come «arma di guerra» e narra un episodio accaduto in un villaggio del Camerun settentrionale nel 2019. «I miliziani non erano soddisfatti del bottino rubato, non era abbastanza. In quel caso, non se la sono presa con gli uomini, ma hanno tagliato le orecchie delle donne».

Combattenti volontarie 
In Niger, dove Boko Haram ha esteso le sue ali nella regione meridionale di Diffa, alcune donne si sarebbero unite a Boko Haram nella speranza di trovare un marito all’interno del gruppo. Lo riferisce un rapporto dell’Iss (Istituto studi sicurezza), secondo cui in diversi casi le donne si sono arruolate volontariamente nelle file di Boko Haram per motivi religiosi e ideali, compreso il desiderio di impegnarsi nel jihad. Sono casi che appaiono comunque minoritari, contrariamente a una voce popolare che attribuisce un posto preponderante alle motivazioni religiose nei meccanismi di arruolamento delle donne.
Il ricorrente impiego di donne come kamikaze da parte di Boko Haram in Niger aumenta la loro visibilità nelle funzioni operative. Si dice che siano addestrate alle armi da fuoco e al tiro con l’arco per fornire supporto durante le operazioni militari. E sono utilizzate in missioni kamikaze. Sebbene la maggior parte dei casi documentati di missioni suicide perpetrate da donne siano sotto costrizione, si dice che alcune si offrano volontarie. Per fuggire dal gruppo, per raggiungere il coniuge morto in paradiso o per convinzione religiosa.

I nomi delle donne citati nell’articolo sono di fantasia per proteggere l’identità delle vittime.

Questo articolo è uscito sul numero 6/2022 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop

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