di Marco Trovato
Nell’est della Rd Congo troneggia uno dei vulcani più attivi al mondo. E soprattutto il più imperscrutabile. Che cosa lo rende così unico? Ce ne parla il massimo esperto mondiale. Un vulcanologo napoletano
«All’improvviso il cielo ha preso fuoco…Pensavo fosse la fine del mondo». La sera del 22 maggio 2021, Joseph Kasongo, 45 anni, venditore di frittelle sulle strade di Goma, terminava la sua giornata di lavoro quando assistette a un evento che non potrà più scordare. «Erano da poco passate le sette. Faceva già buio. Stavo sbaraccando il mio banchetto di plantain fritters (banane plantano fritte, NDR) e volevo bermi una birra fresca prima di tornare a casa. D’un tratto, un bagliore impressionante. Tutti hanno cominciato a urlare. Non credevo ai miei occhi: il cielo ardeva».
Non c’è voluto molto per capire: dopo vent’anni il Nyiragongo si era risvegliato. Inaspettata, veloce, letale: l’eruzione ha colto tutti di sorpresa, gente comune e studiosi. Sul fianco meridionale del vulcano, alto 3.470 metri, si era aperta una frattura da cui usciva una colata di lava che in pochi secondi era piombata sui villaggi vicini. Gli abitanti non hanno avuto scampo. Almeno trentadue i morti e venti, a tutt’oggi, i dispersi. Il fiume incandescente si è allungato fino a Goma, dove ha ridotto in cenere un migliaio di abitazioni prima di arrestarsi a poche centinaia di metri dall’aeroporto.
Esperto delle Nazioni Unite
«Fortunatamente il volume di magma era tutto sommato ridotto e la colata ha seguito un percorso sinuoso, concedendo alla gente dei quartieri più a rischio il tempo di fuggire. Altrimenti il bilancio sarebbe stato ben più pesante», commenta Dario Tedesco, 62 anni, vulcanologo napoletano di fama internazionale, esperienze di ricerca e di docenza dal Giappone agli Stati Uniti: l’uomo che più di tutti conosce il Nyiragongo. «Lo studio da ventisei anni», racconta. «Nel 1995 venni chiamato dall’Onu qui, nel cuore dell’Africa, centinaia di migliaia di profughi nei campi allestiti dopo il genocidio del Rwanda». Un falso allarme, come dimostrò lo studioso italiano, che da allora è tornato decine di volte, in veste di collaboratore delle Nazioni Unite e/o dell’Unione Europea, nella Repubblica Democratica del Congo per osservare da vicino uno dei vulcani più attivi al mondo.
Una città in marcia verso il vulcano
«Ed è il più pericoloso al mondo», ci tiene a precisare Tedesco. Argomenta: «La pericolosità è dovuta a due fattori: in primis, la sua collocazione al centro di un territorio densamente popolato e fortemente urbanizzato». Il vulcano fa parte della catena dei Monti Virunga; a scoprirlo, dal punto di vista europeo, fu Gustav Adolf von Götzen,nel 1894. «Un pennacchio di fumo fuoriesce costantemente dalla sommità del cono», annotò l’esploratore tedesco, facendo supporre l’esistenza al suo interno di un lago di lava –la sua presenza fu confermata da una spedizione scientifica nel 1948 da parte del più famoso vulcanologo al mondo “Haroon Tazieff”. Oggi (prima dell’eruzione) sappiamo che vi ribollono quindici milioni di metri cubi di magma, che periodicamente minacciano di rovesciarsi su Goma. «La prima volta che mi recai nell’est del Congo», ricorda Dario Tedesco, «la città contava duecentomila abitanti, oggi ne ha un milione e duecentomila. Così il capoluogo del Nord Kivu, che un tempo si trovava a diciotto chilometri di distanza, si è progressivamente avvicinato al vulcano».
Non potendo espandersi a sud, dove si trova il Lago Kivu, le abitazioni si sono fatte strada nella direzione opposta, verso le pendici della “montagna di fuoco” (questo il significato del suo nome). Troppo vicine. Dall’alto sono evidenti i segni dell’ultima eruzione: dove sorgevano le case ora si vedono gigantesche lingue di lava solidificata, brandelli di tetti, macerie.
Totalmente imprevedibile
A Goma sono abituati ai brontolii del Nyiragongo. Con la fatalità di chi vive ai piedi di un vulcano, non ci si preoccupa dei boati che di tanto in tanto riecheggiano né dell’attività sismica che spesso fa tremare la terra. Si vive con un certo timore reverenziale per una montagna viva e irascibile, che senza ragione apparente può scatenarsi all’improvviso. Ma quando inizia l’eruzione nessuno ascolta più le invocazioni dei pastori delle Chiese evangeliche che in ogni dove tuonano sermoni apocalittici. Quando il vulcano si risveglia, non c’è tempo per le preghiere. C’è solo da correre.
«Il secondo fattore di rischio – continua il vulcanologo — è rappresentato dalle caratteristiche geologiche del Nyiragongo, uniche al mondo, che lo rendono imprevedibile e temibile. La sua lava, infatti, è estremamente fluida e non produce i tipici segni premonitori di un’eruzione che si osservano altrove». Nei vulcani con magma più viscoso, l’attività eruttiva è solita generare esplosioni e spaccature di rocce laviche in profondità che producono scosse sismiche e fuoriuscite di gas: fenomeni premonitori. Il Nyiragongo è diverso.
Le sue eruzioni sono o almeno sembrano imponderabili: avvengono all’improvviso senza che agli studiosi sia dato di captare segnali di avvertimento. Non solo. La lava povera di silice, tipica dei vulcani a scudo, scorre rapidamente a temperature iniziali sui 1.200°C lungo i ripidi versanti e nella sua corsa acquisisce una velocità impressionante, fino a cento chilometri orari. «Non c’è il tempo materiale di mettere al sicuro tutta la popolazione», spiega Dario Tedesco. «L’allarme viene lanciato a eruzione già iniziata. I modelli previsionali che sono stati applicati al Nyiragongo non funzionano o forse i parametri utilizzati, quelli cercati non sono quelli corretti. Il vulcano sembra volersi prendere gioco di noi studiosi. Fa quel che vuole, se ne infischia di ciò che la scienza si aspetta. In meno di 45 anni ha dimostrato di saperci sempre sorprendere. È avvenuto nel 1977, nel 2002, e l’ultima volta sei mesi fa. Dobbiamo prenderne atto e continuare a studiarlo».
Possiamo solo mitigare il pericolo
Dal 1985 è attivo a Goma un osservatorio vulcanologico permanente, che dipende dal ministero della Ricerca del governo di Kinshasa. Vi lavorano almeno una cinquantina di scienziati, in gran parte congolesi, con la collaborazione di diversi ricercatori e geologi di ogni nazionalità, soprattutto belgi. In quella comunità scientifica Dario Tedesco è il decano, certamente il più anziano. Nessuno lo studia, ci lavora, da più tempo di lui. Quando, in occasione dell’ultima eruzione, sui media internazionali hanno cominciato a girare dichiarazioni di “esperti” che prefiguravano scenari apocalittici, e la gente ha iniziato a condividere fake news sui social, c’è stato bisogno dell’esperienza e dell’equilibrio di questo vulcanologo italiano per non perdere il controllo della situazione.
«Qualcuno aveva evocato la possibilità di un’esplosione catastrofica scaturita dall’incontro della lava con gli enormi depositi naturali di gas metano celati sotto il fondale del Lago Kivu», ricorda Tedesco. Che taglia corto: «Era un’ipotesi infondata, una dichiarazione irresponsabile». Qualcuno preannunciò anche un’imminente eruzione nel cuore stesso di Goma: la lava sarebbe fuoriuscita da un condotto sotterraneo filtrando dalle enormi crepe comparse nel suolo della città a seguito dell’attività sismica. «Anche questa ipotesi si è rivelata inconsistente. Inutile fantasticare. Questo è un vulcano imperscrutabile. Possiamo solo lavorare sulla mitigazione del pericolo, cercare di limitare i danni, quantomeno il numero di vittime, sensibilizzando la popolazione, ovvero insegnando ai giovani nelle scuole come comportarsi in caso di eruzione. Perché sgombrare una città come Goma è un’impresa ciclopica che non permette improvvisazioni».
Panico generale
Quando, nel maggio dell’anno scorso, il Nyiragongo è tornato in attività, le autorità congolesi hanno diramato l’ordine di evacuazione per quattrocentomila persone. È scoppiato il caos. Per le strade si sono riversate in piena notte fiumane di gente diretta al vicino Rwanda: lontano il più possibile da quella palla di fuoco che davvero sembrava incendiare il cielo. Si sono viste scene di terrore. Gente che urlava, che spingeva, che correva trasportando sulla testa i poveri averi, senza che nessuno fosse in grado di gestire quella fuga di massa. La frontiera di Gisenyi è stata travolta dalla folla in preda al panico.
Nel fuggifuggi, più di 170 bambini si sono persi e l’Unicef ci ha messo settimane per rintracciarli e riconsegnarli ai genitori. «La notte in cui il Nyiragongo è tornato ad eruttare, mi trovavo in Italia», racconta Tedesco. «Sono subito stato avvisato dai colleghi presenti a Goma. Mi hanno riferito che la lava proveniva dal Nyamuragira, un vulcano con caratteristiche simili, dodici chilometri più a nord. Ma non appena mi hanno mostrato le immagini della colata, ho capito cosa stava accadendo. Ho preparato la valigia per recarmi sul posto con il primo volo».
La pace nel cuore del vulcano
L’eruzione ha svuotato parzialmente il lago di lava interno al cratere, il cui livello tornerà a crescere fino al prossimo sfogo. «Non prevedo tuttavia che avverrà prima che io raggiunga l’età pensionabile», assicura Tedesco, che per almeno altri otto anni manterrà la cattedra di vulcanologia all’Università degli studi della Campania e continuerà a monitorare il Nyiragongo per conto dell’Onu, fino a spingersi nella pancia del vulcano. «Vi sono sceso una ventina di volte. Ogni volta è un’emozione indescrivibile».
Mentre la gran parte degli scienziati conducono i loro studi dall’osservatorio di Goma e di tanto in tanto si spingono sul ciglio del cratere, Tedesco si cala nel Nyiragongo per prelevare campioni e cercare di carpirne i segreti. Scende per quattrocento metri nel ventre del vulcano, in corda doppia, moschettoni e caschetto. Ma senza tuta di amianto o particolari indumenti protettivi. «All’inizio fa freddo, man mano che si scende i venti ascensionali trasportano l’aria calda e i rumori inconfondibili del cratere. Il magma che ribolle, i gas che arrivano in superficie si liberano nell’aria. È il respiro del vulcano. Profondo. Magnetico. Rassicurante. Mi accompagna fino ai bordi del lago di lava. Dove senti il calore sul volto. Incapace di dire o pensare qualcosa, rimani incantato a osservare quello spettacolo di primordiale e selvaggia bellezza. Meraviglioso. Nel cuore del vulcano non c’è spazio per la paura, solo per la pace».
Questo articolo è uscito sul numero 1/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop