di Mario Ghirardi
Viaggio nel caratteristico villaggio di Tiembelè in Burkina Faso. Qui, sui muri in mattoni crudi delle capanne abilmente arricchiti da decorazioni geometriche, spiccano simbolici disegni a rilievo di lucertole, tartarughe, zampe di gallina, avvoltoi, coccodrilli, serpenti dipinti o modellati per allontanare le forze avverse. Un incanto artistico che racconta la storia e le tradizioni della comunità.
Sono là da secoli ad adempiere sempre la stessa funzione, ovvero scacciare il malocchio e gli influssi maligni, esercitando quella funzione conosciuta come apotropaica (dal greco antico ‘allontanare’, appunto) e che non è da confondere con quella del talismano, che, portato con sé, serve piuttosto ad attirare la fortuna. Esempio classico: è un gesto apotropaico uscire con l’ombrello, perché ciò ci induce a credere che così non pioverà, un gesto detto anche scaramantico. Le lucertole, le tartarughe, le zampe di gallina, gli avvoltoi, i coccodrilli, i serpenti dipinti o modellati sui muri del villaggio di Tiembelè sono stati concepiti, insieme con la rappresentazione di oggetti di tipo quotidiano, come tamburi o piante di miglio, esattamente con questo scopo, allontanare le forze avverse che possono ostacolare il buon funzionamento della comunità e i rapporti interfamiliari.
Appaiono sui muri di ogni capanna di quel piccolo agglomerato burkinabè di abitazioni ai piedi di un colle nel pieno della savana, proprio dove il confine meridionale del Burkina Faso sulle cartine geografiche è segnato da una linea orizzontale, che serve a separare i suoi territori da quelli del Ghana. Il confine è del tutto artificiale, frutto della spartizione operata in epoca coloniale, ovvero alla fine dell’800, da Francia e Regno Unito di una zona pur omogenea per cultura e organizzazione sociale, nonché per tradizioni religiose. Lo scellerato risultato è stato di dividere a metà il popolo kassena di etnia gurunsi, spezzando l’unità amministrativa dei villaggi esistente già all’epoca. Oggi Tiebelè è la piccola capitale di un dipartimento di 66 abitati, che deve a sua volta rispondere alla città di Po, capoluogo della provincia di Nahouri, da cui dipende per tutti gli approvvigionamenti e gli scambi mercatali.
Ma non è solo questa rappresentazione di oggetti apotropaici, che spiccano anche a rilievo sulle pareti degli edifici in mattoni crudi, la sua caratteristica peculiare: ogni capanna è infatti decorata all’esterno con dipinti geometrici che la rendono diversa dalle altre e conferiscono al luogo un aspetto assolutamente unico e magico, un’apparizione colorata, da sogno, che spicca inaspettata sul colore terreo e uniforme della savana. I colori e i contorni netti delle decorazioni geometriche, fatte di fantasiose composizioni di triangoli, rombi e quadrati variamente innescati tra loro, brillano perchè i bianchi, i neri, l’ocra e i rossi sono annualmente rinnovati con sapiente tecnica e fantasia artistica dalle donne del villaggio che dedicano allo scopo molti, lunghi giorni del periodo che va da ottobre a maggio.
La preparazione delle pareti avviene stendendo un impasto di argilla e sterco di vacca per consolidarle dopo la stagione delle piogge, una tecnica simile a quella usata per conservare e ‘rinnovare’ le grandi moschee maliane in terra cruda. Quindi sullo strato successivo di laterite rossa le ragazze sposate compongono i disegni creati con l’utilizzo di penne di gallina faraona intinte nei neri residui delle pietre usate per accendere i falò e in altri coloranti naturali. Il risultato è davvero stupefacente, anche per la composizione complessiva dell’agglomerato, che riunisce costruzioni di forma tondeggiante con tetto a spiovere di paglia e altre, tra cui i magazzini, di pianta rettangolare con tetto piano, dove i kassena, che sono sostanzialmente un popolo di agricoltori, fanno essiccare i loro raccolti di miglio, saggina, mais, arachidi, fagioli e riso, colture pianificate dalle autorità religiose locali. Infatti i kassena prendono le loro decisioni comunitarie attraverso un consiglio formato da anziani più che rispondere ad un singolo capo tribù.
Altra particolarità: il villaggio, abitato da un’unica famiglia allargata, è fortificato, nel senso che è circondato da un alto muro di argilla che protegge l’insieme dei ‘sonron’, nome locale delle tipiche abitazioni, lasciando un unico varco che conduce verso il centro, dopo un tortuoso percorso destinato a rendere difficile un’eventuale incursione ostile. Per lo stesso motivo le capanne hanno piccolissime finestre ed altrettanto basse porte, che costringono chi entra a piegarsi a 90 gradi, dando modo a chi sta dentro, già con la vista assuefatta al buio, al contrario del nemico, di colpirlo senza sbagliare bersaglio.
In ogni caso le porte basse e le finestre piccole limitano la luce solare e dunque mantengono, aiutate dallo spessore delle pareti di terra cruda dello spessore di una trentina di centimetri, una temperatura tutto sommato confortevole nelle stanze interne, dove si trovano anche le cucine, in cui ogni gesto quotidiano è rimasto quello di una tradizione secolare, nonostante i jeans stesi ad asciugare e gli smartphone appoggiati accanto alle braci.