di Gianfranco Belgrano
I popoli del Sahel sono impegnati in un colossale progetto per frenare l’avanzata del deserto. Ottomila chilometri di verde per arrestare l’avanzata del Sahara. È l’ambizioso programma lanciato quindici anni fa nei Paesi del Sahel. Protagoniste: le popolazioni locali chiamate a strappare al deserto e a coltivare cento milioni di ettari di terra. Ma i lavori sono rallentati dalla scarsità di fondi e dai problemi di instabilità e insicurezza nella regione
La sabbia del deserto, asciutta, leggera, pronta a ricoprire quello che trova lungo un cammino disegnato dai capricci del vento. Una distesa di minuscoli granuli che assumono tutte le sfumature del giallo e si insinuano tra fili d’erba e rade chiome disordinate. È questo l’elemento più evidente che accomuna i Paesi del Sahel, la fascia di territorio africano che dalla Mauritania corre verso il Corno d’Africa.
Prendendo a prestito le parole di padre Mauro Armanino, da anni missionario in Niger, la sabbia è metafora tra le più convincenti per indicare l’insicurezza e la fragilità che avvolgono queste terre. «In quella porzione d’Africa tutti sono coscienti che è la precarietà a dettare il ritmo e le stagioni del tempo», scrive padre Armanino. «La vita, il lavoro, la pioggia, i raccolti, il cibo, i viaggi, i matrimoni, la salute, la scuola, la politica, i progetti, la fede religiosa, gli appuntamenti, le amicizie, la pace, gli amori. Tutto sembra condizionato dal sapore dell’insicuro umano transitare». E aggiunge: «La “sicurezza” è un’utopia nella quale pochi hanno creduto. Naturalmente hanno ragione loro e la sabbia, dalla quale tutti discendiamo».
Coalizione internazionale
Questa mobilità della sabbia, questo incedere del deserto verso terre un tempo rigogliose e fertili e che ora rischiano di diventare anch’esse Sahara, è una sfida al vivere quotidiano che da alcuni anni è stata raccolta da una iniziativa internazionale sposata, tra gli altri, da Unione Africana, Unione Europea e varie agenzie dell’Onu. L’iniziativa si è concretizzata in un progetto denominato, in inglese, Great Green Wall (Ggw), traducibile in italiano come Grande Muraglia Verde. Pensata per fermare la siccità e il depauperamento della terra, la Ggw è un maestoso progetto agronomico a lungo termine che comprende tutte le nazioni della fascia saheliana, un’area che registra una media annua di precipitazioni di 400 millimetri e allo stesso tempo un altissimo tasso di crescita demografica.
L’idea di creare un “muro verde” contro il deserto nacque nel 1952 da uno scienziato britannico molto attivo sul fronte dell’ambientalismo, Richard St. Barbe Baker. Il progetto fu poi ripreso nel 2005 dall’allora presidente nigeriano Olusegun Obasanjo, che pianificò una barriera lunga circa 8.000 chilometri e profonda 15 che collegasse la costa atlantica africana a quella sull’Oceano Indiano. Nel tempo il progetto ha ottenuto finanziamenti da Banca Mondiale, Nazioni Unite, Conferenza sul clima e, nel 2007, l’appoggio dell’Unione Africana.
Un mosaico verde
La muraglia verde non è, in realtà, un’ininterrotta fascia alberata. Far crescere alberi nel deserto non è semplice perché gli alberi hanno bisogno di cure, mentre larghe zone sono disabitate o sconvolte da scontri armati. La Ggw è piuttosto una costellazione di piccoli progetti legati alle comunità, un mosaico verde contro povertà e insicurezza alimentare.
Lo scopo di questa barriera lo ha spiegato Moctar Sacande, che alla Fao coordina le iniziative contro la desertificazione. «La prima funzione del progetto», ha detto in un’intervista al mensile Africa e Affari, «è quella di migliorare la resilienza dei contadini e dei sistemi naturali nel contrasto ai cambiamenti climatici». Lo scopo è rendere di nuovo produttive le terre semiaride, a beneficio delle comunità che vivono nei villaggi e dell’agricoltura su piccola scala, ovvero di contadini, pastori e allevatori. I benefici sarebbero non solo ecologici ma anche economici: secondo gli studi, per ogni dollaro investito ne tornerebbero almeno 1,2. «La Grande Barriera Verde è vista come una metafora, come un mosaico di interventi a favore dell’ambiente e dei mezzi di sussistenza che nello stesso tempo puntano a mitigare i cambiamenti climatici». In questo continuo sforzo di costruzione, recupero e contrasto, le azioni tecniche implementate dalle comunità sul terreno sono fondamentali. S sono principalmente due: da un lato, il restauro delle terre degradate attraverso la piantumazione di semi e pianticelle di alberi di specie utili a comunità rurali e ambiente; dall’altro lato, lo sviluppo di prodotti forestali non legnosi, come l’apicoltura, la produzione di gomma arabica, la produzione di foraggio e l’allevamento di bestiame.
La forza delle comunità
Lanciata ormai quindici anni fa, l’iniziativa procede a fatica. I ciclopici obiettivi per il 2030 prevedono il ripristino e il rimboschimento, con specie autoctone e resistenti, di 100 milioni di ettari, il sequestro di 250 milioni di tonnellate di carbonio e la creazione di lavoro per milioni di persone. Finora sono stati realizzati solo i primi 4 milioni di ettari dei 100 previsti. Tutto è rallentato dalla scarsità di fondi, da tensioni endogene (per esempio tra contadini e pastori), soprattutto da problemi di instabilità e di insicurezza nella regione. Quel che appare chiaro guardando ai progetti che vengono condotti sul campo, e che sono solo una piccola parte dello sforzo più grande necessario per riuscire a compiere quella che sarebbe una vera e propria impresa umana, è la necessità di unire agli sforzi della comunità internazionale e dei vari governi nazionali la forza che sono in grado di esprimere le comunità locali mettendo a disposizione risorse e conoscenze. Ne è un esempio Yacouba Sawadogo.
Incontrarlo e parlare con lui (nel 2018, a Ouagadougou,; v. anche Africa 4/2022, pag. 64) è come aver aperto una finestra sulle potenzialità che il Sahel ha e che la sua gente è in grado di maneggiare. Per oltre 50 anni, Sawadogo ha praticato e diffuso in Burkina Faso una tecnica di coltivazione tradizionale nota con il nome di zai (o tassa). Questa tecnica consiste nello scavare buche nel terreno per raccogliere l’acqua durante la stagione delle piogge, riempiendole di letame e concime. In questo modo si riesce a recuperare porzioni di terra rendendole di nuovo fertili e aumentandone, anzi, la resa. «I conflitti intercomunitari a cui assistiamo oggi», ci ha detto nei suoi modi diretti e chiari, «sono legati anche al fatto che la terra fertile che ci hanno lasciato i nostri antenati sta scomparendo. Ciò crea divisioni. A mio avviso il primo passo da fare per dare una soluzione è piantare alberi che ridiano vita al terreno: senza di essi non possiamo vivere». Per il suo impegno, a Sawadogo – che ha ispirato anche un documentario – sono andati diversi riconoscimenti tra i quali il The Right Livelihood Award, conosciuto come Premio Nobel alternativo.
Le minacce alla sicurezza
Come ricordato dallo stesso Sawadogo, il Sahel negli ultimi anni ha visto un progressivo e continuo deterioramento delle condizioni di sicurezza che, in maniera un po’ accademica, potremmo legare alle vicende seguite alla caduta di Muammar Gheddafi, il leader libico deposto e ucciso nel 2011. Da quel momento, in effetti, l’intera area ha sperimentato una diffusione di armi e di gruppi armati che con varie agende e sfruttando le mancanze e le assenze dei governi hanno portato guerra e divisioni in diversi Paesi, a partire dal Mali.
In successione, dopo il Mali, le violenze hanno interessato il Burkina Faso e il Niger, estendendosi via via quasi perfettamente lungo i confini tanto labili quanto teorici del Sahel. Chi ha preso le armi ha sfruttato soprattutto la carenza di risorse, mettendo l’una contro l’altra comunità che da secoli hanno condiviso territori; ha sfruttato popolazioni abbandonate dai poteri centrali e dalla comunità internazionale; ha attratto giovani senza speranze dando loro un’idea, insieme a una moto e a un fucile.
Ci sono studi secondo cui l’80% dei giovani che sceglie di arruolarsi tra le fila di un gruppo armato non lo fa per motivi ideologici. Nella maggioranza dei casi si tratta di giovani frustrati per la mancanza di opportunità, frustrati per la lontananza dello Stato, frustrati perché non vedono i governi rispondere ai bisogni delle società di appartenenza, frustrati perché le loro aspirazioni restano inevase, perché il territorio in cui vivono non sembra in grado di reagire alle avversità della natura.
Un’opportunità storica
A fronte di queste sfide, affinché la grande spinta demografica del Sahel sia un valore e non un problema, la Grande Muraglia Verde è un’opportunità storica. A sottolinearlo è Ibrahim Thiaw. Originario della Mauritania, già vicedirettore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep), oggi Thiaw è alla guida della Convenzione dell’Onu per combattere la desertificazione (Unccd). «La Grande muraglia verde», spiega Thiaw, «è l’opportunità per il Sahel di realizzare qualcosa di veramente straordinario. Una rinascita per la terra e per l’ambiente. E, cosa altrettanto importante, una vera forma di resilienza e il rifiorire di comunità in prima linea contro cambiamento climatico e povertà».
Inguaribile ottimista, Thiaw in realtà ha ben presenti i problemi della sua regione. In un’intervista rilasciata quando ancora era all’Unep (prima del covid), aveva anzi parlato di tre crisi parallele in corso nel Sahel. C’è innanzitutto una crisi legata alla sicurezza, che è molto evidente e chiara. Abbiamo poi una crisi economica in quasi tutti i Paesi della regione, benché non in tutti. E infine una crisi ambientale, legata ai cambiamenti climatici. Accanto a queste crisi, aveva detto in quell’occasione, «dobbiamo considerare un fattore di rilievo: l’aumento della popolazione sta procedendo in maniera molto rapida, portando con sé un aumento di bisogni ed esigenze che incidono anche sull’ecosistema regionale».
Proprio per questi motivi, per Thiaw la Grande Barriera Verde è un tassello fondamentale all’interno di un nuovo percorso che deve necessariamente includere il recupero dell’ambiente e la costruzione di risorse. «La vera questione è quella di trasformare queste sfide, questi fattori di criticità, in concrete opportunità. Mi porrei dunque delle domande. In che modo possiamo trarre beneficio dalle risorse naturali del Sahel? In che modo possiamo utilizzare la sabbia e il vento del Sahel per generare energia e, magari, posti di lavoro per i giovani? Energia che poi potrebbe essere utilizzata per trasformare l’agricoltura e sviluppare l’agricoltura, e che può servire a ridurre le vulnerabilità delle popolazioni».
E allora, la Grande Barriera Verde altro non è che uno degli strumenti per trasformare l’ambiente e quindi l’economia, nella consapevolezza che serve un’azione congiunta dei singoli Paesi, della comunità internazionale e delle stesse comunità locali.
Foto di apertura di Simon Townsley/Panos Pictures – Adam Abdullah, 75 anni, contadino ciadiano della regione di Kanem, getta in aria della terra arsa dal sole. Alle sue spalle si estende il bacino disseccato del Lago Ciad
Questo articolo è uscito sul numero 2/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop