I (falsi) miti sui Dogon

di claudia

di Marco Aime

Il celebre popolo del Mali che vive abbarbicato sulla falesia di Bandiagara è stato a lungo celebrato da antropologi e turisti occidentali per le sue presunte conoscenze astronomiche, per la sua cultura “ancestrale” e per il suo modello di vita “autentico”. Ma le cose non sono come le abbiamo raccontate

Sullo sfondo di quella grande quinta naturale che è la Falaise di Bandiagara s’intrecciano due storie. Un visitatore di un altro pianeta che attraversasse questa terra vedrebbe campi spesso sbriciolati dalla siccità, magri steli di miglio, donne che percorrono chilometri per approvvigionarsi d’acqua e molte case abbandonate. Ma se cercasse nei libri informazioni sui Dogon, leggerebbe di un mondo fatto di simboli cosmici, di misteriose astronomie, di gente che trascorre il tempo a riordinare l’universo secondo mappe ancestrali armoniche e virtuose.

Per gli occidentali i Dogon sono quelli di Marcel Griaule. Nel suo libro più celebre, Dio d’acqua, uscito nel 1948, Griaule offrì un’immagine dei Dogon e del loro ricco e complesso universo cosmogonico che vive ancora oggi, alimentata e corroborata anche da operatori turistici, guide di viaggio e riviste del settore, per i quali il Dogon mistico e incontaminato è un “prodotto” che si vende bene. Un’immagine proiettata su uno schermo di sogno, buono per appagare la nostra carenza di miti e misticismo. L’immagine resta congelata, immutabile, senza storia: i Dogon erano così e saranno sempre così. Si sprecano espressioni come “ancestrale”, “immutati”, “tradizionali” e si nega così a queste genti la capacità di fare storia.

Ma il nostro viaggiatore alieno, passeggiando qui e là vedrà una miriade di orti coltivati a cipolle. Perché, se per noi i Dogon sono “i misteriosi astronomi” che conoscono il segreto della stella Sirio B, in Africa occidentale la loro fama è legata alle cipolle. E le cipolle portano, talvolta, all’islam. Le reti commerciali del Mali e dei Paesi limitrofi sono gestite in gran parte da mercanti islamici ed è più facile entrarvi se si condivide questa fede. Così, ai piedi della falaise, che nel 1989 è stata dichiarata patrimonio mondiale dall’Unesco in quanto “culla dell’animismo”, si vedono nascere sempre più frequenti piccole moschee dalla classica architettura saheliana.

Nelle fotografie che troviamo su guide e cataloghi non vediamo mai i motorini che percorrono ansimando le piste, il traliccio del telefono che domina la piazza di Sanga davanti all’ufficio postale, né le bancarelle dei mercati con oggetti in plastica e magliette dei Chicago Bulls o di Ronaldo. Eppure i Dogon sono anche questo.

La società dogon, sempre qualificata come “tradizionale”, cela dentro di sé i germi di una flessibilità straordinaria, che le permette di conservare l’essenziale: il suo conservatorismo apparente e la sua caratteristica dinamica di fondo. Chi si reca in Mali non è un turista di massa e neppure uno sprovveduto, ma non vuole condividere tutto dei Dogon, solo la parte che più lo affascina. Magari rischiando di proiettare su quella gente valori che ha o crede di avere perduto. Ed è questo che gli propongono le guide locali, spostandosi su quella zona franca che è in fondo il terreno del turismo.

L’autenticità che il turista “etnico” cerca è proporzionale alla distanza dalla modernità che ciò che accade davanti ai suoi occhi mantiene. Il turista fa “come se” ciò fosse autentico, pur essendo conscio della rappresentazione in atto. In fondo la questione non è se il turista viva o meno un’esperienza autentica, ma se lui ne percepisce una certa autenticità basata più sulla distanza dalla sua esperienza quotidiana che sulla reale conformità con la tradizione locale.

I Dogon lo sanno ed è proprio questa dimensione che offrono al turista. Molti di loro hanno letto Dio d’acqua e narrano ai visitatori ciò che Griaule ha scritto dei Dogon. I turisti vedono così appagata la loro ricerca di autenticità. “Autentico” sembra dover coincidere con immutabile, a dispetto dei diversi e profondi mutamenti che attraversano questa terra: l’avanzata dell’islam, l’azione delle ong che operano sul terreno, l’introduzione di colture commerciali come le cipolle. I turisti però oggi non arrivano più. Anche all’ombra della falaise è arrivata l’onda strisciante del jihadismo che ha travolto anche i Dogon.

Questo articolo è uscito sull‘ultimo numero della rivista Africa. Per acquistare una copia clicca qui, o abbonati alla rivista approfittando delle promozioni in corso.

Condividi

Altre letture correlate: