Madagascar, la quiete senza tempo del Pangalanes

di claudia

testo e foto di Marco Trovato

Viaggio sul canale che corre per oltre 600 chilometri lungo la costa orientale del Madagascar. Ideato dai francesi ai tempi della colonizzazione, era la strada d’acqua su cui viaggiavano le spezie al riparo dai tifoni e dalle correnti oceaniche. Ancora oggi il canale rappresenta l’unica via di comunicazione per decine di migliaia di persone che vivono abbarbicate sulle sue sponde

I colpi delle pagaie sono monotoni, ipnotici, sedativi. Dopo un po’ di ore ti fanno sprofondare nel torpore. A ridestare l’attenzione è un altro rumore, più sinistro, che proviene dalle mie spalle: il picchiettio del mestolo usato dal timoniere per svuotare l’acqua infiltratasi nello scafo da una falla rattoppata alla bell’e meglio con un pezzo di plastica. I barcaioli non paiono preoccuparsene. «L’importante è non agitarsi», mi dicono. Un movimento sbagliato farebbe capovolgere il tronco d’albero scavato su cui galleggiamo. «Finiremmo nella poltiglia torbida dove possono annidarsi micidiali coccodrilli», avvertono con un ghigno, e non si capisce se stanno scherzando.

Eredità coloniale

Stiamo risalendo il Canale dei Pangalanes, un’autostrada liquida che corre per centinaia di chilometri lungo la costa orientale del Madagascar. Furono le autorità francesi, alla fine dell’Ottocento, a progettare questa via navigabile allo scopo di facilitare il trasporto delle spezie verso il porto fluviale di Toamasina, il più importante del Paese. La regione era fertile, le piantagioni prosperose, ma bisognava trovare il modo di spedire i raccolti in sicurezza, mettendoli al riparo dalle correnti oceaniche e dalla periodica minaccia dei tifoni. Joseph Gallieni, il governatore a capo dell’amministrazione coloniale, pensò di sfruttare i bacini naturali alimentati dalle piogge monsoniche.

L’idea era di collegare tra loro fiumi e lagune costiere (chiamate, appunto, pangalanes) che si estendevano ai piedi dell’altopiano. Per realizzare l’opera furono ingaggiati migliaia di indigeni, immigrati asiatici e detenuti della colonia penale sottoposti ai lavori forzati. Armati di pale e picconi, costoro smossero tonnellate di terra e di rocce, innalzarono barriere, scavarono solchi nei fondi melmosi, perforarono stretti istmi: diedero vita a unico percorso acquatico, separato dal mare da un cordone litorale, che si estendeva per quasi settecento chilometri dalla località di Farafangana a Mahavelona.

Per oltre mezzo secolo sul canale transitarono i tesori dell’isola: vaniglia, pepe, cannella, caffè, chiodi di garofano. Anche dopo l’indipendenza, ottenuta nel 1960, i commerci delle spezie continuarono a viaggiare per lungo tempo sull’acqua. Con l’andare del tempo, però, il Pangalanes perse la sua funzione strategica – complice l’inerzia delle autorità malgasce che ne trascurarono la manutenzione. In alcuni tratti il canale si allarga al punto da sembrare un lago di cui si vedono a stento le rive, in altri si restringe fino a diventare un corridoio strettissimo che a fatica si insinua nell’incombente muraglia vegetale. Malgrado le difficoltà, rappresenta ancor oggi l’unica via di comunicazione per decine di migliaia di persone che vivono abbarbicate sulle sue sponde, sospese tra l’acqua e la terra.

Piccoli commerci

Al villaggio di Loholoka si vive del commercio di legname, da costruzione o da ardere. «Una volta a settimana riempiamo di cataste le nostre piroghe e partiamo verso i principali mercati della zona», racconta un vecchio con la pelle raggrinzita dal sole. «Durante la stagione delle piogge scoppiano temporali improvvisi, il vento alza onde minacciose e dobbiamo affrettarci a raggiungere la riva per non rischiare di perdere il nostro carico». Al mercato di Vohimasina sbarcano con le loro mercanzie centinaia di donne provenienti da decine di villaggi. Sotto una grande tettoia vendono gamberetti freschi, pesci affumicati, molluschi viscidi, foglie di patate dolci e di tabacco, caschi di banane, intrugli medicamentosi, sacchi di riso, secchi di carbonella.

«Mi sono dovuta svegliare alle quattro, questa mattina, e ho camminato quasi due ore prima di imbarcarmi sulla piroga», racconta una venditrice con il bimbo piccolo fasciato sulla schiena. Ha il volto solcato da rughe tortuose come i sentieri che è costretta a percorrere da una vita. «Spero solo che la fatica venga ripagata. Se oggi venderò tutto, porterò a casa diecimila ariary (circa due euro): abbastanza per sfamare i miei figli».

Acque vitali

Il Pangalanes è il cordone ombelicale che alimenta le povere economie famigliari. E talvolta può fare la differenza tra la vita e la morte. «I malati più gravi arrivano in carriola… o in canoa, risalendo il fiume Faraony, che è collegato al canale», racconta Cecilia Pellicciari, 58 anni, l’infermiera modenese che coordina l’ospedale di Ampasimanjeva, punto di riferimento sanitario per tutta la regione, sostenuto dal Centro missionario diocesano di Reggio Emilia e dall’ong italiana Rtm. «Spesso i pazienti arrivano da noi in condizioni critiche: affetti da malaria, tubercolosi, infezioni polmonari o intestinali trascurate e potenzialmente letali».

Sull’altra sponda del fiume opera la dottoressa Hanitra, responsabile del centro di salute di Ambotaka. «Le piroghe all’occorrenza diventano ambulanze», conferma con una smorfia. «Se non ci fosse questa via d’acqua sarebbe impossibile trasportare dalle zone più remote della foresta chi necessita di cure». Il problema è che le cure negli ambulatori pubblici non sono gratis. In pochi possono permettersi le pastiglie contro la malaria. «Persino una sacca di fisiologica per le flebo, indispensabile per cercare di salvare i corpi disidratati, ha costi inaccessibili per gran parte della popolazione».

Ambohitsara, Madagascar, Nov. 10: Malagasy typical village along the Pangalanes channel, eastern Madagascar on Nov. 10, 2016

In soccorso dei più poveri si è attivata da venticinque anni una donna malgascia, Theodille Bao, che con il marito Claudio, italiano, ha creato l’associazione Zanantsika. Impressionanti le attività realizzate assieme a tanti volontariee collaboratori locali: quattordici scuole per migliaia di bambini, una casa famiglia per piccoli orfani, un centro sanitario per la popolazione, aiuti alimentari per i piccoli studenti e per chi fatica a mettere assieme il pranzo con la cena. Spiega Theodille: «La situazione socio-economica è precipitata dopo il passaggio dei cicloni Batsirai ed Emnati, che nel febbraio del 2022 si sono abbattuti con una furia devastante sulle piantagioni di chiodi di garofano e sulle risaie, che da allora non si sono più riprese».

Mosaico di popoli

La zona è abitata dagli Antaimoro, discendenti di marinai giunti dalla Mecca e da Sumatra, animisti capaci di far convivere la fabbricazione di amuleti e talismani con le credenze astrologiche e il tabù del consumo di carne di maiale. Lungo il canale si incontrano altre etnie che fanno parte dell’eccezionale mosaico antropologico della popolazione malgascia: gli Antambahoaka, anch’essi di origine arabica, che ogni sette anni celebrano una grande festa di circoncisione; i Bezanozano, che amano annodarsi i capelli in piccole treccine e hanno l’abitudine di scolarsi litri di rum durante il disseppellimento rituale degli antenati. Infine i Betsimisaraka, ovvero gli “Inseparabili”, originati dall’unione tra un pirata inglese e una principessa locale, il cui figlio Ratsimilaho divenne un sovrano leggendario. Nel loro territorio, la profondità del canale è tale da permettere la navigazione di battelli pubblici e convogli di chiatte cariche di grafite estratta nelle miniere di Amarovitsy.

CFGY68 Sunset on the Pangalanes Channel, east of Madagasar

Più a sud transitano zattere e lance a motore. Nell’estrema propaggine meridionale del canale, quella più selvaggia e incontaminata, navigano solo piroghe solitarie, talvolta sospinte da sacchi gonfi d’aria, piccoli gusci di legno come quello su cui viaggiamo.

Rotte selvagge

Alla nostra vista i bambini che pascolano gli zebù sulle rive si sbracciano per salutare, urlano eccitati «vazaha!», “straniero!”, per attirare l’attenzione. Non sono abituati a vedere i bianchi. I fuoristrada dei turisti non si avventurano sulle piste infernali di questa regione umida e piovosa, flagellata dai cicloni e dalla malaria, dove regna incontrastata una natura tanto esuberante da incutere timore.

L’imbarcazione scivola tra selve di mangrovie, canneti di bambù, cespugli di pandano simili a carciofi giganti. I ravinala, alberi a forma di ventaglio, paiono inchinarsi al nostro passaggio, mentre le foglie di alocasia, conosciute come “orecchie di elefante”, sventolano sull’acqua limacciosa dove occhieggiano anatre e aironi. Guizzano pesci e piccoli anfibi. Nuvole di farfalle esplodono nell’aria in mille colori. Con la piroga buchiamo nugoli di moscerini, minuscoli e frenetici. Il colore dell’acqua cambia a seconda del sole, del fondo e della corrente: può essere bianco e spumoso oppure nocciola, cannella, cuoio. Ora il canale è una lama argentea come carta stagnola, un attimo dopo diventa scuro e verde come la giungla.

Parole al vento

I rematori devono districarsi in un groviglio sempre più fitto di liane e piante tropicali che pare voler inghiottire il rio. «Più avanti il canale è sbarrato», avverte il mio interprete, Alfred Georgial, 37 anni, insegnante d’inglese che viaggia con uno zaino pieno di gessetti e quaderni umidi. «Basterebbe un’ora di piroga per raggiungere la mia città natale, Manakara, ma la sabbia ha ostruito il fondo, rendendo impossibile la navigazione». Il governo di Antananarivo ha promesso più volte i lavori di dragaggio necessari per ristabilire la piena operatività del Pangalanes. Parole al vento. «Tra Mahanoro e Vatomandry, il canale è sbarrato da una ragnatela inestricabile di papiri, ninfee e giacinti d’acqua», informa un commerciante di frutta esotica che fa la spola tra queste località con il suo carico di ananas, manghi, papaie e noci di cocco. «È impossibile da attraversare», scuote la testa affranto. «Per proseguire bisogna prendere la pista di terra rossa che fiancheggia il fossato».

Nell’aria salmastra riecheggia il fragore delle onde. L’Oceano Indiano è vicinissimo; si sente ma non si vede: una sottile striscia di terra separa le sue acque burrascose dalle quiete del Pangalanes.

Finale magico

C’è un punto in cui, come per magia, le acque del mare e del canale s’incontrano e si fondono: è la foce del fiume Faraony, là dove si trova il villaggio di Ambinany. Dalla sabbia bianca e soffice come lo zucchero affiora una manciata di capanne dalle pareti di canne e i tetti di foglie di palma: ripari effimeri in balia dei venti. «Quando sta per arrivare il ciclone, il cielo verso nord si fa nero e l’orizzonte scompare nell’oceano», mi racconta un pescatore. «È il segnale che spinge l’intera popolazione a rifugiarsi nell’unico edificio in muratura della zona. L’ultima volta siamo rimasti rintanati là dentro un giorno e una notte. Sentivamo un boato pauroso, le raffiche di vento facevano tremare le pareti e il tetto. Quando tutto è finito, siamo usciti e il villaggio non c’era più. Lo abbiamo ricostruito come prima, nello stesso punto, come abbiamo sempre fatto in passato e sempre continueremo a fare, perché questa è la terra dei nostri antenati, qui siamo nati e qui moriremo».

La gente di Ambinany vive di pesca: aragoste, tonni, ricciole, marlin e squali. Ma anche carpe, sardine, tilapie e gamberi d’acqua dolce. I pescatori possono lavorare su entrambe le sponde – quella dell’oceano e quella del fiume – a seconda del frangente e dell’umore. Al tramonto gli uomini sistemano le reti e rabberciano le canoe. Le donne avvolte nei loro scialli svolazzanti si radunano lungo le sponde del Pangalanes: osservano il canale come fosse un palcoscenico, e loro spettatrici in platea prima di uno spettacolo. Fissano l’acqua come dovesse accadere qualcosa di importante. Aleggia un’aria di attesa enigmatica. E mentre il sole sparisce dietro la selva, d’un tratto il canale sembra prendere fuoco, incendiarsi, diventando una lingua fiammante che accende di meraviglia i loro sguardi.

Questo articolo è uscito sul numero 2/2024 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l‘e-shop.

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