Mozambico, la crisi dimenticata di Cabo Delgado

di claudia

di Enrico Casale

La ribellione sembrava domata. I miliziani parevano confitti. L’intervento congiunto delle truppe ruandesi, di quelle della Sadc e mozambicane avevano dato l’impressione di aver domato il focolaio di rivolta. Invece, da sotto le ceneri, il fuoco si è acceso nuovamente. Attacchi feroci, poi la fuga nella boscaglia. Altri attacchi e poi altri ancora. Per Cabo Delgado, la provincia più settentrionale e più povera del Mozambico, non c’è pace.

I guerriglieri jihadisti legati allo Stato islamico continuano ad attaccare comunità, villaggi, città. Uccidono, distruggono, terrorizzano. Una strage che viene perpetrata nel silenzio della comunità e dei media internazionali dal 2017. “Quest’anno i mesi di gennaio e febbraio sono stati i più tragici, con una sequenza di attacchi compiuti nella parte orientale del distretto di Chiure, dove sono state distrutte 18 chiese cattoliche in altrettanti villaggi attaccati – spiega mons. Antonio Juliasse F. Sandramo, vescovo di Pemba -. Ci sono stati alcuni morti e molte persone sono state costrette a spostarsi, aumentando il numero degli sfollati interni, che ha già raggiunto la cifra di un milione dall’inizio di questa instabilità militare nel 2017. L’altro grande attacco è stato effettuato il 10 maggio quando i jihadisti islamici hanno invaso il capoluogo del distretto di Macomia, provocando alcuni morti, danni ad alcune infrastrutture e diffusi saccheggi di enti economici e organizzazioni non governative”.

Che cosa ha portato allo scatenarsi di questa guerra?

“I problemi alla base di questo conflitto sono assai complessi: il terrorismo islamico (Isis), la povertà, l’appropriazione illecita di risorse naturali e minerali, la corruzione di alcune figure di potere che cercano un rapido arricchimento attraverso il traffico di droga, la tratta di esseri umani e altre attività illecite, ecc.”

Come reagisce la popolazione locale?

Foto di Alfredo Zuniga / AFP

“La popolazione si trova in una situazione vulnerabile, spesso è costretta a collaborare quando non riesce a fuggire. In generale, la popolazione indifesa è vittima di questa violenza militare. I jihadisti hanno talvolta chiesto sostegno alle popolazioni islamiche, ma la collaborazione di queste popolazioni è basata più sulla paura che su una convinta adesione agli ideali dei fondamentalisti”.

Questa rivolta ha creato una drammatica situazione umanitaria. Qual è la situazione attuale?

“La situazione umanitaria merita molta attenzione; Molti campi di reinsediamento per sfollati interni rimangono privi di condizioni adeguate. Quest’anno il raccolto non è stato sufficiente e, quindi, ci sarà carestia nei campi di reinsediamento degli sfollati interni e anche tra le popolazioni che sono tornate ai villaggi attaccati. Mancano medicine e sostegno scolastico. Le organizzazioni che fornivano sostegno psicosociale e protezione alle persone vulnerabili hanno finito i soldi e stanno abbandonando il loro lavoro. Il timore è che i problemi legati alle violazioni dei diritti umani, soprattutto contro donne e bambini, peggiorino nuovamente tra gli sfollati interni”.

Quale ruolo svolge la Chiesa cattolica in questa crisi?

“Dal 2017, la Chiesa cattolica ha sostenuto più di 250.000 sfollati interni con assistenza sanitaria, trasporti, cibo, costruzione di rifugi, sostegno scolastico, sostegno psicosociale e assistenza spirituale. La Chiesa cattolica è impegnata in questo sostegno attraverso la Cáritas diocesana di Pemba, il settore emergenza della diocesi di Pemba e attraverso il coinvolgimento diretto del personale missionario nelle parrocchie in cui si trovano. Molte persone bisognose bussano spesso alle porte di preti e suore in cerca di aiuto. Purtroppo, da quando l’attenzione dei media si è rivolta alla guerra in Ucraina e a quella in Medio Oriente, il nostro problema è passato in secondo piano e gli aiuti non arrivano più come una volta. Senza aiuto, la Chiesa soffre di non poter aiutare le altre vittime bisognose degli attacchi jihadisti”.

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