di Gianfranco Belgrano
Il vino sudafricano conta tre secoli e mezzo di storia, ma il suo successo è giunto negli ultimi trent’anni, con la fine dell’apartheid. Oggi sono ottocento le cantine e imprese vitivinicole (non più di esclusiva proprietà di cittadini bianchi) che si stanno affermando a livello internazionale
Si racconta che Napoleone Bonaparte ricevesse ogni anno 1.800 litri di vino sudafricano a Sant’Elena, l’isola in cui era stato esiliato. Così più o meno le consegne andarono avanti tra il 1815 e il 1821, anno della morte del fondatore del primo impero francese e protagonista assoluto dell’Europa di fine Settecento e primo Ottocento. Quel vino arrivava dalla tenuta di Groot Constantia, che già dal 1685 era specializzata nella produzione di vini, in particolare dolci.
Ancora oggi, Groot Constantia può vantarsi di essere la più antica e attiva fattoria del Sudafrica, una parte importante del patrimonio mondiale del vino e una destinazione turistica internazionale che ospita al suo interno anche ristoranti e un museo.
La storia di Groot Constantia è di fatto la storia delle prime origini del vino in Sudafrica ed è legata a Simon van der Stel, che nel 1679 fu nominato dalla Compagnia olandese delle Indie Orientali governatore del Capo di Buona Speranza.
Le piante di vite in realtà erano state importate dal primo governatore, e chirurgo, Jan van Riebeeck, fondatore di Città del Capo, che nel 1655 fece piantare le prime barbatelle e quattro anni dopo produsse le prime bottiglie, ma il tentativo di Riebeeck di diffondere la coltivazione della vite non portò, in realtà, a risultati soddisfacenti: gli agricoltori del luogo, pur fortemente incoraggiati, manifestarono fin da subito un’evidente riluttanza e una più che prevedibile inesperienza in materia, fattori che contribuirono inevitabilmente al fallimento dell’iniziativa.
Riprendendo l’esperimento non riuscito del suo predecessore, Van der Stel ottenne oltre 700 ettari dietro a Table Mountain, la montagna simbolo di Città del Capo, e avviò la coltivazione dei vitigni sfruttando le sue discrete conoscenze in ambito viticolo ed enologico. Proprio da lui prende il nome il distretto di Stellenbosch, che oggi è un po’ la capitale del vino in Sudafrica e ospita una delle migliori università dedicate all’enologia. Sarebbero dovuti passare anni, però, prima che i vini sudafricani riuscissero davvero a competere con quelli europei. Il passo avanti fu possibile grazie all’arrivo degli ugonotti francesi. Perseguitati per motivi religiosi e costretti a lasciare la Francia, gli ugonotti sbarcati all’altro capo del continente portarono con sé competenze che resero fiorente l’industria del vino, grazie anche a innovative tecniche di vinificazione.
Alti e bassi
Ai fasti assicurati dall’arrivo degli ugonotti, subentrò tuttavia un periodo di declino, che durò per gran parte del XVIII secolo a causa di una certa resistenza dei Paesi europei, ma anche di altre zone del mondo, all’importazione di vini da Città del Capo: sia per ragioni politiche sia perché si trattava di prodotti non sempre di qualità e non in grado di competere con i più blasonati vini europei, primi tra tutti quelli francesi.
Una decisa crescita del mercato si ebbe a partire dai primi dell’Ottocento, in seguito all’occupazione britannica dei territori sudafricani e alla guerra tra Inghilterra e Francia, che bloccò gli scambi commerciali tra i due Paesi e permise di rivalutare i vini del posto, portando la produzione, in meno di mezzo secolo, da 500.000 a 4 milioni e mezzo di ettolitri l’anno.
La fine delle ostilità tra Inghilterra e Francia, l’arrivo della fillossera (un insetto parassita che danneggia le viti fino a farle morire) e la guerra anglo-boera a fine secolo furono tra le principali cause di un altro rapido declino, che segnò profondamente il settore fino al 1918, anno in cui Charles Kohler fondò la cooperativa Kwv. Oggi privatizzata, la Kwv per molti anni assunse funzioni assimilabili a quelle di un ministero, stabilendo i terreni per i vitigni, i prezzi delle uve, linee guida a cui fare riferimento, consentendo in questo modo un rilancio del settore.
Mandela e la vera, grande svolta
«La vera grande svolta per i vini sudafricani arriva però con la liberazione di Nelson Mandela, la fine del regime di apartheid e la nascita di istituzioni democratiche», sottolinea Fabio Albani, che con la sua Afriwines è in Italia il principale importatore di vini sudafricani, di cui è un vero e proprio amante oltre che grande conoscitore. Con il rilascio di Mandela, ricorda Albani, e la fine delle sanzioni che gravavano sul Paese, si sono create le condizioni ideali perché il Sudafrica potesse tornare a produrre ed esportare vino. «A fare la differenza in quel momento storico», dice ancora Albani, «fu la capacità di recuperare le antiche competenze, di investire e di credere in un settore che ha bisogno di tempo per maturare. Oggi, a distanza di anni, possiamo dire che quell’operazione è stata coronata da successo, con il Sudafrica che può contare su oltre 800 imprese, dotate da una media di venti ettari di terreno per azienda, e mercati importanti».
Ancor oggi sono per lo più aziende di proprietà di bianchi, ma, grazie a politiche governative mirate, anche altri gruppi stanno lentamente trovando spazio, contribuendo allo sviluppo di un settore che dà lavoro a ben 270.000 sudafricani. Secondo Wendy Petersen, manager della SA Wine Industry Transformation Unit, negli ultimi anni sarebbero emersi più di 80 marchi di proprietà di neri sudafricani. All’interno di questo nuovo filone, una delle aziende più importanti è Cape Dreams, guidata da Bunty e Wahed Khan, e perfino una figlia di “Madiba”, Makaziwe Mandela, ha cominciato a produrre vini, sotto il marchio House of Mandela. «Quello che l’industria del vino nel Sudafrica è oggi», conclude Albani, «è in gran parte il frutto degli enormi sforzi condotti in questi ultimi anni di democrazia e alla relativa evoluzione sociale; sono in corso lenti ma continui trasferimenti di potere alla popolazione nera, joint-venture, grossi investimenti di importanti aziende vinicole mondiali».
Industria fiorente
Secondo l’ultimo rapporto della Wines of South Africa (Wosa), un’organizzazione che rappresenta tutti i produttori di vini sudafricani, i principali clienti si trovano in Nord Europa e Nord America. Il Regno Unito è saldamento al primo posto, seguito a distanza da Germania, Stati Uniti, Paesi Bassi e Canada. Nella classifica delle prime dieci destinazioni dell’export di vino sudafricano trovano poi spazio anche la Cina, gli Emirati Arabi e un Paese di grandi tradizioni vinicole come la Francia. In crescita significativa è poi la quota dell’export verso il resto del continente africano (+8%), mentre tra i primi dieci non c’è l’Italia.
«Questa assenza mi dispiace un po’, perché nel mondo, nelle carte dei vini anche dei ristoranti blasonati, i vini sudafricani sono sempre più presenti, e stra-meritatamente», racconta Guido Invernizzi, docente dell’Associazione Italiana Sommelier. «I sudafricani ci hanno creduto, hanno studiato, hanno investito, sono andati in giro per il mondo e questa è una grande nota di merito perché è anche grazie a questo che si è affermata una vitivinicoltura di eccellenza». In Italia, continua Invernizzi, manca forse quella curiosità internazionale che invece la Francia sta dimostrando di avere, pur avendo anch’essa un’industria del vino di altissimo livello. «La curiosità è il leitmotiv dell’enogastronomia ma anche della vita nel suo senso più ampio, per questo motivo dovremmo aprirci a degustare qualcosa di diverso da Paesi diversi e non essere stantii nelle abitudini».
Un profumo diverso
E in effetti, abituati ai prodotti europei, basta provare un vino sudafricano per capire come stesse uve possano esprimere sapori e profumi molto diversi. Avviene in Italia, tra vini prodotti in Piemonte o in Toscana con le stesse uve, avviene ancora di più in Sudafrica dove è diverso il terroir, ovvero l’insieme dei fattori che influenzano le coltivazioni (il terreno, la disposizione, il clima, il tipo di viti, la sapienza dei viticultori…). «Sicuramente», continua Invernizzi, «Meerlust è stata una delle prime grandi cantine a offrire queste esperienze, grazie tra l’altro all’enologo italiano Giorgio Dalla Cia. E spostandoci dalla iper-famosa Stellenbosch a zone più interne, ci sono dei Pinot che non sfigurano con nessuno a livello internazionale. Il Sudafrica ha lo Chenin blanc, un’uva che si è adattata perfettamente; nelle zone più fredde si fanno dei meravigliosi Sauvignon blanc, si fanno degli ottimi Chardonnay. E anche nel campo dei rossi ci sono vini eccezionali, abbiamo dei Merlot, dei Cabernet, dei Pinot Nero… Il Sudafrica fa poi grandissimi vini passiti e vini liquorosi, sia bianchi che rossi, legati al passaggio dei portoghesi da questa regione. La fortuna di questo Paese è quella di avere, per ogni tipologia, vini di un livello qualitativo sicuramente alto, quasi sempre a un rapporto qualità-prezzo terribilmente competitivo». «Chi vuole bere bene, imparare, essere curioso spendendo il giusto», conclude Invernizzi, «trova in Sudafrica uno dei grandi paradisi terrestri del mondo».
E infine, il Pinotage…
In Sudafrica c’è anche un’uva autoctona, che si chiama Pinotage, dalla storia particolare. Nel 1925, Abraham Izak Perold, il primo professore di viticoltura dell’Università di Stellenbosch, decise di utilizzare il Pinot Noir e il Cinsaut (allora conosciuto come Hermitage) per fare un incrocio, per creare cioè una nuova varietà che rispondesse meglio alle caratteristiche climatiche del territorio.
Fu da quell’incrocio che nacque il Pinotage, l’unica uva davvero sudafricana e coltivata per lo più in Sudafrica. Sin dall’inizio, però, il Pinotage ha dovuto lottare contro avversità e scarsi riconoscimenti, finché la tenuta Kanonkop ha ottenuto con la sua versione di Pinotage il titolo di miglior vino rosso al concorso International Wine and Spirits Competition di Londra nel 1991, stabilendo una nuova categoria per questi vini. «A quel punto il mondo si accorse della sua esistenza e anche i più assidui detrattori gli dedicarono più attenzione, quasi a segnare l’avvio di una nuova epoca non soltanto per il Pinotage ma per i vini sudafricani in generale», conclude Fabio Albani, ricordando come proprio in quel periodo il Sudafrica si stava finalmente liberando dalle catene dell’apartheid.
Questo articolo è uscito sul numero 2/2024 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.