L’Africa nella tazzina di caffè

di claudia

di Céline Nadler

Viaggio nel mondo della bevanda più amata, tra miscele di qualità, sfide ambientali e contadini assetati di giustizia. Il caffè è il primo prodotto agricolo commerciato al mondo e il suo mercato è in crescita. L’Africa – terra di origine della pianta – vanta metà dei Paesi produttori ed esporta alcune delle varietà più pregiate. Ma nella filiera i piccoli coltivatori rimangono l’ultima ruota del carro. Qualcosa però si muove in vista di un caffè più etico

L’Africa è la culla del caffè. Più precisamente, la qualità arabica è originaria di Kaffa, una regione forestale dell’Etiopia sud-occidentale. È là che, narra la leggenda, un pastore notò una particolare irrequietezza nelle sue capre che avevano mangiato certe bacche rosse. Incuriositi, i religiosi sufi della regione scoprirono che la bevanda preparata con l’infuso di quei frutti consentiva loro di restare svegli nelle lunghe notti di preghiera. Iniziava così la carriera internazionale dei piccoli chicchi di “oro bruno”, a partire dalla penisola arabica.

Anche la varietà robusta è originaria dell’Africa, ma della parte occidentale, anche se ormai ampiamente coltivata in quasi tutti i Paesi della fascia intertropicale, dalla Guinea all’Uganda.

Boom di tazzine

Oggi il caffè rappresenta il primo prodotto agricolo commerciato al mondo, anche prima del grano, e la seconda materia prima negli scambi globali, superata solo dal petrolio. È un mercato che, derivati compresi, genera un giro d’affari di quasi 200 miliardi di dollari e redditi per almeno 100 milioni di famiglie. E il consumo è destinato a salire, con tassi di crescita, per i prossimi anni, tra l’1 e il 2%, incremento che porterebbe a un consumo prossimo ai 208 milioni di sacchi nel 2030. Cioè 3,8 miliardi di tazzine al giorno.

La metà dei 54 Paesi produttori sono in Africa e due di loro, Etiopia e Uganda, figurano tra i primi dieci esportatori mondiali. Non solo. A sud del Sahara si producono varietà fra le più pregiate al mondo. Ci sono regioni in cui il caffè fa parte dell’identità culturale. Sugli altopiani del Corno d’Africa è facile imbattersi in donne intente a sbucciare a una a una le bacche rosse, a disporle ad asciugare al sole su teli di bambù, o ad arrostire su un fuoco di carbone impregnato d’incenso i chicchi che serviranno al famoso rituale della cerimonia del caffè. Gesti antichi, immagini di pace e serenità, che rammentano un proverbio etiope: “Il caffè, come l’amore, quando è caldo ha un sapore migliore”. Peccato che di serenità la storia della coltivazione del caffè in Africa ne conosca ben poca.

Sfruttamento coloniale

L’onnipresenza di questa coltura da est a ovest del continente non è, in effetti, dovuta tanto alla sua origine locale quanto alla sua reintroduzione, in epoca coloniale, da parte degli imperi europei che, assegnando all’Africa centrale e occidentale lo status di fornitrice di materie prime agricole, plasmarono il paesaggio, l’economia e le abitudini di vita dei suoi abitanti. La crescente richiesta di questa bevanda necessitava di un’abbondante, e conveniente, manodopera locale.

Il caffè, che si diffuse in tutti gli strati delle società europee, era quindi in gran parte prodotto da schiavi, dal Madagascar alla Costa d’Avorio. Da pianta autoctona, era tornato nel continente come coltura di esportazione. Così, se la sua coltivazione induce un mercato del lavoro in colonie come il Camerun o il Tanganica (oggi Tanzania), incentivando l’arrivo di nuove popolazioni, origina anche un mercato fondiario in altri Paesi, impattando le strutture economiche, politiche e sociali locali, come in Kenya o in Uganda, dove ai coltivatori africani si vieta di piantare caffè per garantire il reddito ai soli coloni. Nei territori degli attuali Burundi, Rwanda e Rd Congo, l’amministrazione belga impose un sistema di lavoro forzato nelle piantagioni che sarà causa delle prime rivolte anticoloniali.

Business per pochi

A partire dagli anni Sessanta alcuni Stati africani di fresca indipendenza legano il proprio destino a questa coltura, che tuttavia permetterà di arricchire soprattutto alle élite (basti ricordare l’immensa fortuna personale, stimata in dieci miliardi di dollari, vantata dal primo presidente ivoriano, Félix Houphouët-Boigny, dovuta essenzialmente a caffè e cacao). L’intera filiera del caffè dipende in gran parte dai prezzi che si decidono lontano dal continente: a Londra e a New York rispettivamente per la robusta e l’arabica. Chi detta le leggi del mercato è una manciata di multinazionali – colossi occidentali che gestiscono oltre l’80% delle esportazioni, mentre i contadini subiscono le oscillazioni dei prezzi, che possono determinare diminuzioni fino a oltre il 50% dei loro magri guadagni.

A ciò si aggiunge l’intervento dei torrefattori, che, per attenuare il sapore forte dei chicchi africani, li miscelano talvolta con quelli di altre parti del mondo per incontrare i gusti dei consumatori europei e nordamericani. I quasi sette milioni di piccoli produttori africani hanno ben poca voce in capitolo. Ciò vale per tutti i Paesi in cui il caffè costituisce un’interessante fonte di valuta estera, per esempio Etiopia, Uganda, Rwanda, Burundi, Kenya, Tanzania, Malawi, Zambia, Madagascar.

Piccoli e fragili

Lo scarso potere contrattuale di questi Paesi dipende anche dall’estrema frammentazione del settore. A differenza delle grandi piantagioni che caratterizzano i paesaggi caffeicoli dell’America centrale e meridionale, in Africa la specificità della coltivazione risiede nelle piccole dimensioni delle aziende. Secondo un recente studio di Enveritas, organizzazione non profit dedita alla sostenibilità dell’industria del caffè, oltre la metà delle piantagioni inferiori ai cinque ettari – che contribuiscono al 67% della produzione mondiale – si trova proprio in Africa, dove sono più che mai diffuse piccole cooperative e aziende rurali a conduzione familiare. Va tuttavia osservato che, nella maggior parte dei Paesi africani produttori, la successiva suddivisione generazionale delle piccole aziende in appezzamenti più piccoli da distribuire in eredità ha portato a un’ulteriore diminuzione delle dimensioni dei terreni, al punto che in Africa risulta difficile distinguere, ai fini statistici, le piantagioni dai semplici orti.

L’Organizzazione interafricana del caffè (Iaco) denuncia che, nonostante il reddito annuo dell’industria globale sia stimato in centinaia di miliardi di dollari, ai produttori africani va meno del 5%. Le difficoltà sono confermate da un rapporto stilato dalla piattaforma africana di vendita e acquisto di prodotti alimentari e agricoli Selina Wamucii, intitolato Misery on the farm, secondo cui il prezzo del caffè africano, per quanto pregiato, risulta il più basso del mondo.

Sfida ambientale

Con un prezzo medio alla produzione di arabica di 96,5 centesimi di dollaro a libbra in America Latina, di 110,1 centesimi in Asia, ma di 70,4 in Africa, e, per la robusta, di 78,5 centesimi in America Latina e di 67,4 in Asia contro i 58,4 dell’Africa, il rapporto calcola che i coltivatori di caffè africani perdano ogni anno quasi 1,5 miliardi di dollari.

Il sostentamento dei coltivatori di caffè africani è peraltro minacciato anche dai cambiamenti climatici, che, uniti alla continua deforestazione, non lasciano grandi speranze per la sopravvivenza delle fragili piante della varietà arabica e che, oltre a causare un’eccessiva erosione del suolo, sono responsabili della distruzione dell’habitat di lemuri e pipistrelli della frutta, entrambi fondamentali nella dispersione e nella fertilizzazione dei semi, quindi della perdita di produttività dei suoli e dell’invecchiamento delle piante, malgrado l’esperienza accumulata dai coltivatori del continente.

Secondo il rapporto A Brewing Storm del Climate Institute di Sydney, nel mondo le aree adatte alla coltivazione di caffè potrebbero ritrovarsi dimezzate nel 2050. Il motivo principale sono gli sbalzi climatici, che già stanno dappertutto compromettendo molte produzioni. Tutte incertezze che fin da oggi contribuiscono alla crescente disaffezione delle aziende agricole familiari e soprattutto dei giovani per la coltivazione del caffè, a favore di altre attività o colture, come i fagioli o le patate dolci.

L’importanza dei consumatori

I consumatori possono fare la loro parte nel condizionare l’industria del caffè, premiando gli esempi – che non mancano – di realtà virtuose e responsabili. Perché le miscele di caffè non sono tutte uguali. Bisogna anzitutto saper andare oltre le etichette – poiché il marketing può trarre in inganno – e imparare a riconoscere il caffè migliore: quello che nasce da chicchi di qualità, lavorati da filiere sostenibili, attente all’ambiente e alle persone.

L’Italia è uno dei Paesi leader nel consumo: si stima che mediamente beviamo quasi sei chilogrammi di miscele di caffè all’anno pro capite. Tanto? Certamente molto, ma c’è chi fa meglio, come il Nord Europa, dove si passa dai dodici chili dei finlandesi ai dieci dei norvegesi e agli otto degli svedesi. Le scelte di acquisto di milioni di consumatori di caffè hanno dunque ricadute rilevanti sui piccoli agricoltori che stentano a vivere del loro duro lavoro. Il commercio equo e solidale offre da tempo miscele che garantiscono migliori condizioni di lavoro e il rispetto del territorio. È proprio per inseguire le nuove esigenze dei consumatori che le aziende del mondo intero esibiscono sempre più iniziative di riduzione dell’impatto delle loro attività sulla biodiversità e di stimolo allo sviluppo delle comunità locali. Trasparenza, etica, progetti di riforestazione, agricoltura sostenibile, rispetto dei diritti dei produttori, sicurezza alimentare, parità di genere, crediti di carbonio ed energie rinnovabili nei Paesi in via di sviluppo sono alcune delle nuove parole d’ordine delle società attive nella filiera del caffè. Così, attraverso la sua Fondazione, l’italiana Lavazza vanta vari progetti incentrati sulla sostenibilità sociale, ambientale ed economica in seno alle comunità produttrici di caffè – Etiopia, Uganda e Burundi sono tra i suoi beneficiari in Africa – in collaborazione con 93 ong. Non solo. Caffè Vergnano ha lanciato nel 2018 il progetto “Women in Coffee” per sostenere piccole realtà di donne coltivatrici.

Tracciabilità e trasparenza

Anche Segafredo Zanetti, il marchio globale della “numero due” italiana Massimo Zanetti Beverage Group, si è distinto negli ultimi anni per iniziative a favore delle comunità vulnerabili nei Paesi produttori. Nel 2021, l’azienda si è impegnata in un programma sanitario contro la malnutrizione infantile in Sierra Leone, in sinergia con l’organizzazione italiana Medici con l’Africa Cuamm. Dall’altra parte del continente, in Mozambico, nel 2019 Illycaffè – premiata ancora nel 2023, per undici anni consecutivi, da Ethisphere per i suoi standard di pratiche commerciali etiche – ha collaborato con l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (Unido) in un partenariato pubblico-privato finanziato dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics) per migliorare il reddito dei piccoli produttori nella filiera agricola. Sono solo alcuni esempi.

Qualcosa sta cambiando nel mondo del caffè. A testimonianza degli sforzi dei principali player globali per garantire maggiore stabilità finanziaria ai piccoli coltivatori, un rapporto pubblicato da Mediobanca sull’industria internazionale del caffè rivela che i volumi certificati sono cresciuti di quasi il 90% in soli cinque anni. La strada è ancora lunga: meno del 10% dei consumatori si affida a caffè certificati. «Sarebbe bello se da domani, quando si va ad acquistare il caffè, si avessero le stesse pretese di quando si acquista un vino», chiosa Francesco Sanapo, pluripremiato campione barista e degustatore professionista, titolare di “Ditta Artigianale” a Firenze, realtà con cinque caffetterie in città. «Sarebbe bello che ci fosse da parte del consumatore, ma anche del barista, maggiore curiosità per ciò che si beve o si serve». Il consiglio: «Chiedete più tracciabilità e trasparenza, e scoprirete un mondo bellissimo, il meraviglioso mondo del caffè».

Questo articolo è uscito sul numero 2/2024 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.

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