Un anno fa, il 2 ottobre 2023, Angelo Ferrari, giornalista e scrittore, colonna della nostra rivista, è scomparso all’età di 63 anni, a seguito di una lunga malattia. Per più di trent’anni ha viaggiato per il continente africano raccontandone le tragedie e i principali conflitti, ma anche le storie di riscatto e le speranze dei suoi popoli. Per ricordarlo pubblichiamo oggi degli estratti del suo ultimo libro, Non so come andrà a finire (OGzero, 2023).
Capitolo 42 “La sposa bambina”
La savana questa notte è particolarmente buia. Il cielo non regala nessuna emozione. Niente stelle, niente di niente, solo buio che si può tagliare con il machete. Poi rumori. In lontananza, in una manyatta, un insediamento maasai non molto distante, si sta cantando. Un canto monotono. I tamburi ripetono sempre lo stesso ritmo, che prende lo stomaco. Sembra non finire mai. Quella è la notte che le cambierà la vita. Grace non dorme da giorni. Il pensiero di andare sposa a dodici anni la tormenta. E quel canto amplifica il tormento e il dolore. Le martella dentro. La prospettiva di non poter più andare a scuola non le dà pace. Lei vuole studiare, vuole crescere. Non ha ancora ben chiaro cosa vorrebbe fare da grande, ma certo non sposare quell’uomo che le è stato imposto. Ha ben chiaro che quel matrimonio interromperebbe qualsiasi sogno, anche quelli che non conosce ancora. E come fare? Come fuggire da un destino non suo? Grace vuole diventare grande, non essere già grande o comunque considerata tale. “Come si può essere grandi a dodici anni?”. Una domanda che si ripete costantemente, che le martella in testa. Ma suo padre ha deciso: Grace si deve sposare, punto e basta. Non c’è discussione. È stata mutilata nei suoi genitali. Ora è pronta. È una donna. Il padre ha già stabilito con chi si sposerà, ha già stilato quel contratto di matrimonio che gli darà un po’ di respiro, ampliando i suoi affari. Non gli importa se l’uomo scelto è molto più vecchio di sua figlia, ha già diverse mogli, figli più grandi di lei. E lei, Grace, contribuirà al lavoro quotidiano, partorirà forza lavoro per quell’uomo. Tutto qui. Semplice.
Il dolore e il sangue sono il ricordo più vivido. Il resto, per Grace, rimane in una memoria lontana, di quando aveva solo otto anni: «Mi sono alzata molto presto quella mattina», ricorda oggi. «Mi ha svegliato la sorella di mia madre, che mi ha spiegato cosa mi avrebbero fatto poco dopo. Era troppo tardi, perché era proprio in quel giorno che dovevano circoncidermi. Mia madre non sapeva nulla, infatti mio padre è arrivato a dirlo solo quella mattina». Grace usa la parola «circoncisione» e non mutilazione dei genitali, perché di quello si tratta, lei lo ha rimosso. Circoncidere è una cosa normale, perché capita anche ai maschi. Ma la mutilazione è qualcosa di molto peggio, di tremendo: ti toglie ogni speranza, ti toglie la dignità di donna, la possibilità di scegliere, e diventi solo buona per mettere al mondo figli.
Dunque, nessuna discussione. Le figlie non possono parlare con i padri e i padri non parlano con le figlie, perché è il genitore che decide, non c’è spazio per nessuna discussione: è la cultura maasai. È stata la madre a darle la notizia del matrimonio. «Non ho mai visto mia mamma così triste», racconta Grace. «È venuta da me, quasi piangendo, e si è limitata a riportarmi la decisione di mio padre». Un dialogo surreale. «Lui ha deciso. Sei pronta per andare in moglie». «Come, in moglie? Io voglio studiare. Sono ancora piccola, come è possibile? Non può essere vero». «È il destino di tutte le ragazze maasai, sai che la tradizione lo impone. Sei stata mutilata e quindi sei adulta. Ecco cosa ha detto tuo padre». «Mamma, ma tu cosa pensi?». «Lo sai, non sono d’accordo. Ma io sono una donna, e non decido nulla».
Un destino dal quale non si può sfuggire. Capita a tutte le ragazze maasai, l’educazione non conta. «Mamma, io voglio studiare. Lo sai bene che se mi sposo finisce tutto. Non è giusto! Perché mio padre vuole darmi in sposa?». «Tuo padre non ha detto nulla di particolare. Mi ha semplicemente riferito che siccome sei stata mutilata, non vai a scuola e sei grande, è giunto il momento di diventare moglie, perché deve essere così. Come primogenita devi avere del bestiame e sposarti. Tutto qui. E poi se n’è andato». Questo è il destino delle maasai. Nessun appello. Adesso che fare? Ribellarsi, scappare? Ma scappare dove? Nella capitale, a Nairobi? Grace non riesce nemmeno a piangere. Il cuore è davvero spezzato. «Un vecchio, devo sposare un vecchio…». Grace conosce la tradizione maasai, e ne è anche orgogliosa. Ma sa che sposarsi significa diventare una proprietà di quell’uomo. Le donne non hanno voce. Grace può parlare solo con la madre. Chiede consiglio a lei. L’unica via sembra essere quella di scappare lontano. Le giornate che seguono sono tremende. Si è rotta la fragile armonia che aleggiava nella manyatta: madre e padre continuano a litigare. Il nervosismo prevale su tutto. Il padre teme di perdere l’affare, di non potersi risollevare da un brutto periodo. Per la siccità ha perso gran parte del bestiame, e quel matrimonio potrebbe dargli un po’ di respiro: la dote pattuita, costituita da mucche e capre, è cospicua. L’uomo, tuttavia, non accetta che venga messa in discussione la sua autorità. Teme che madre e figlia stiano ordendo qualcosa alle sue spalle, mandando in fumo i suoi progetti.
A ogni litigio picchia chi gli capita a tiro. Non si può più andare avanti così. Ed è allora che madre e figlia decidono che non
vi è altra soluzione se non la fuga. Una notte, Grace, decide di scappare. Una notte senza stelle. Una notte in cui il padre non c’è. È fuori a bere whisky con gli amici, non si sa nemmeno dove. In lontananza sempre quel canto, quei tamburi che ripetono all’infinito un ritmo sempre uguale. È quella la notte. Non si può aspettare oltre. Con l’aiuto della madre, Grace fugge. La savana di notte è davvero buia. Fa paura. Si ricorda della famiglia di leoni che aveva visto passare proprio davanti alla loro manyatta poco più di un anno prima. Quella volta tutti si erano agitati perché vedere una famiglia di leoni in movimento durante il giorno è davvero raro. Di giorno le pecore e le mucche dei maasai sono solitamente al pascolo. È di notte, quando gli animali domestici sono al riparo all’interno del recinto della manyatta, che i leoni vanno a caccia. Grace si fa coraggio. Aiutata dalla madre, raccoglie poche cose all’interno di una coperta rossa a scacchi: qualche vestito, la collana di perline che le ha fatto la nonna, i quaderni di scuola e un sacchetto di plastica con un po’ di ugali rimasto dalla cena. Indossa la maglia di lana della divisa scolastica – di notte nella savana fa freddo. Guarda negli occhi la madre, che la fissa senza esternare alcun sentimento. I suoi occhi le stanno solo dicendo: «Vai, figlia mia».
I pensieri della donna sono tanti, ma rimangono tutti schiacciati in fondo al cuore. Lei a scuola ha smesso di andarci molto presto, non sa neppure parlare kiswahili, conosce solo il maasai. Pensa a Grace, la sua prima figlia, che ha dodici anni: la stessa età che aveva lei quando l’ha partorita. Pensa che la sua vita ormai è quella: di madre a dodici anni, di moglie maasai nella savana della Rift Valley. Non sa neppure cosa sia la Rift Valley, ma sa che per la figlia ci può essere un futuro diverso, a patto che ora se ne vada. Grace apre la porta e se ne va senza voltarsi. Quando arriva a poco più di un chilometro di distanza da Magadi, il suo villaggio, e le fioche luci di fuoco non si vedono più, ha un tentennamento. La savana di notte è davvero buia e fredda: fa paura. Grace si volta indietro, respira affannosamente. Pensa per un attimo ai leoni che aveva visto passare e poi a quell’uomo che sarebbe diventato suo marito se avesse deciso di tornare. Così chiude gli occhi, ingoia il pianto che ha in gola e nel cuore, e continua la fuga. Piuttosto che quel matrimonio, meglio l’ignoto della capitale Nairobi.