Wax, tessuto migrante

di claudia
WAX

di Giulia Beatrice Filpi – foto di Pascal Maitre /Panos Pictures

Indagine sulla “africanità” di un tessuto indonesiano, industrializzato in Olanda e oggi prodotto principalmente in Asia. Dopo una lunga storia di produzione nei Paesi Bassi, il tessuto wax è attualmente fabbricato prevalentemente in Asia, e da qui destinato all’esportazione. Alcuni, sottolineandone l’origine coloniale, criticano l’uso della stoffa stampata a cera da parte degli africani, mentre per molti il tessuto è un simbolo inequivocabile dell’identità del continente

La storia del wax inizia sull’isola di Giava intorno alla metà dell’Ottocento, quando alcuni imprenditori europei scoprono i tessuti batik. Le decorazioni, dove il colore è applicato con bagni di tinta successivi, sono fatte a mano con una cannula di rame intrisa di cera, in un lento processo artigianale che può richiedere anche mesi per un solo panno. Gli europei decidono di produrne delle imitazioni, attraverso processi a stampa industriali, inizialmente per destinarle al mercato indonesiano. I primi wax riproducono colori e simbologia locali: alcuni colori possono essere indossati solo dai nobili, il bianco designa il lutto e così via. Tra le prime aziende a produrre wax in fabbrica c’è la olandese Pieter Fentener van Vlissingen & Co, nota dagli anni Settanta come Vlisco, ancora oggi tra i protagonisti del settore.

Verso la fine dell’Ottocento, il prodotto non riscontra grande successo in Asia. Secondo alcuni, ciò à dovuto a una generale crisi del commercio; altri sostengono che gli indonesiani, abituati alla precisione garantita dal processo artigianale, non apprezzassero le imperfezioni presenti nella lavorazione in serie.
Certi del potenziale del loro prodotto, gli europei reinventano quindi i disegni del wax integrandovi elementi ispirati a varie culture africane, e iniziano a smerciarlo in Costa d’Oro, l’attuale Ghana, intorno al 1880. A partire da quel momento, Accra diventa il primo epicentro della diffusione di massa del tessuto stampato a cera.

Le “Nana Benz”
La leggenda vuole che “ankara”, altro nome per designare questo tipo di tessuto, derivi proprio da “Accra”, la città dove i mercanti hausa lo compravano per farlo circolare in tutta l’Africa occidentale. Se, per decenni, i disegni dell’ankara riflettono proiezioni di stilisti maschi europei sui gusti delle donne africane, dai primi anni Trenta alcune commercianti togolesi iniziano a imporre ai produttori il gusto africano. Negli anni Sessanta, le “Nana Benz” sono una trentina di imprenditrici potentissime, abili nei calcoli e capaci di parlare diverse lingue del Golfo di Guinea. Selezionando e commerciando in tutto il continente i modelli provenienti dai Paesi Bassi, acquisiscono conoscenze uniche sui gusti delle diverse popolazioni africane, e imparano a collocare colori e fantasie sui diversi mercati. Grazie al loro ruolo di intermediarie, queste donne accumulano ben presto fortune considerevoli, che consentono loro di essere tra le prime persone a possedere delle Mercedes in Togo. Da qui il loro soprannome di “Nana (ragazze) Benz”. La loro è soprattutto una formidabile opera di comunicazione pubblicitaria, che si avvale anche della creatività delle clienti.

Un linguaggio panafricano
Le decorazioni sul wax diventano, negli anni, un linguaggio in codice: ogni fantasia acquista un nome, che può essere impiegato per veicolare messaggi non verbali, in genere tra donne. Tra gli esempi, è famoso quello denominato “si tu sors je sors”. “Se tu esci, esco anch’io”: il motivo rappresenta due uccellini che volano fuori da una gabbia e pare che venga indossato per alludere al tradimento. Un altro motivo classico è quello che riproduce occhi stilizzati tra linee ondulate: noto come “l’occhio della mia rivale”, è usato in Costa d’Avorio per invitare i membri di una famiglia ad agire e prendere posizione in una situazione di conflitto. Una terza fantasia, risalente a fine Ottocento, raffigura una mano contenente dodici scellini inglesi. Secondo alcune ricostruzioni sarebbe stata disegnata con l’idea di rappresentare un proverbio del popolo ashanti: “Il palmo della mano è più dolce del dorso”. Tuttavia le donne togolesi lo avrebbero ribattezzato molto più pragmaticamente “non sposarti a mani vuote”, utilizzandolo per suggerire discretamente di considerare le finanze del proprio amato prima dell’eventuale matrimonio.

Se proprio bisogna parlare di “africanità” del wax, dunque, si può dire che risieda non nella sua fabbricazione, ma nell’universo di significati attribuitogli dalle donne che lo utilizzano. Lo conferma ad Africa l’antropologa francese Anne Grosfilley, che nel suo Wax & Co. Antologia dei tessuti stampati d’Africa (Ippocampo, 2018) parla del wax come di una «tradizione inventata». «Proprio perché, originariamente, non è africano, il wax è diventato un tessuto federatore davvero panafricano», spiega Grosefilley. «Tuttavia», aggiunge, «le ricadute economiche per il continente sono pressocché inesistenti, considerando che oggi Il 96% del wax prodotto a livello mondiale viene dall’Asia».

«L’unica fabbrica di wax cento per cento africana»
Situata sulle sponde ghanesi del Lago Volta, la Akosombo Industrial Company Ltd è rimasta, a detta dei suoi promotori, «l’unica fabbrica di vero wax di proprietà africana». Akosombo impiega circa settecento persone tra designer, manager e operai. Le altre due imprese che producono vero wax in Africa sono proprietà della Vlisco, che detiene la quota di maggioranza di Uniwax, con sede in Costa d’Avorio, e di Gtp, Ghana Textile Products, fondata nel 1966 come azienda statale della neonata repubblica ghanese.

Sammy Acquah risponde ad Africa dal suo ufficio di Accra, dove dirige il reparto Affari internazionali di Akosombo. «Onestamente, la popolarità del wax è in continuo aumento. Lo vediamo impiegato in una varietà crescente di capi d’abbigliamento, e di recente anche per cucire tende e rivestimenti d’arredo», spiega, «ma incontriamo anche una serie di difficoltà. Tra le sfide maggiori c’è, ovviamente, l’arrivo di prodotti di importazione economici dall’Est: non solo Cina ma anche Pakistan e India. Un altro problema è il prezzo dell’energia in Africa: da solo, rappresenta tra il 30 il 50% dei nostri costi di produzione. Con maggiore sostegno da parte dello Stato saremmo in grado di fornire un contributo importante all’occupazione. E per quanto riguarda le esportazioni dobbiamo affrontare molte tasse e barriere normative».
Nonostante le sfide, i prodotti della Akosombo si possono trovare in diversi Paesi d’Europa e negli Stati Uniti. Persino su qualche bancarella capitolina.

“Made as Ghana”
Passato il primo pomeriggio, i negozianti asiatici dell’Esquilino si accingono a chiudere, dal momento che la giornata, com’è evidente dai corridoi vuoti del mercato tessile, non si presta agli affari. Oggi è il giorno dell’Aid El-Fitr, in cui i musulmani celebrano la rottura del digiuno di Ramadan, e chi doveva ha già fatto gli acquisti per la festa. Intorno alle 16 c’è comunque il tempo di dare un’occhiata ai wax e alle loro imitazioni. Sulle etichette si possono leggere scritte come “Real Wax”, “Authentic Guaranteed Wax” o anche “Made as Ghana”. Molte di queste stoffe sono prodotte in Asia: i prezzi per un’imitazione di poliestere partono da cinque euro per il panno standard da sei iarde, cinque metri e quaranta per un metro e venti.

Scorrendo attentamente i tessuti, si trova anche del vero wax ghanese, intorno ai 15 euro. Il wax si distingue dalle sue imitazioni perché, al contrario di un qualunque tessuto stampato, il colore e la fantasia sono ugualmente visibili sui due lati. La differenza di prezzo non dipende solo dalla qualità dei materiali e dal diverso costo della manodopera ma, è l’opinione dei produttori di wax intervistati per questo articolo, anche da un maggiore accesso degli asiatici a sussidi statali nei loro Paesi nonché a una presunta minore scrupolosità nel rispettare tasse e normative.
Al momento, la marca Vlisco non è disponibile, spiega uno dei commercianti dell’Esquilino: «Forse domani. Comunque», avverte, «costa almeno 40 euro». Prezzo che corrisponde, peraltro, a circa un terzo di quello delle nuove collezioni dell’azienda, disponibili per l’acquisto online.

Tra alta moda e ricerca
Mentre molti africani ripiegano verso i sempre migliori prodotti asiatici, il wax olandese continua a mantenere intatto il suo prestigio. «Come in molti settori», spiega Grosfilley, «i prodotti di fascia media, come molti wax africani, soffrono per la concorrenza della fast fashion e delle collezioni sempre più economiche, mentre la gamma più alta va molto bene». I wax Vlisco stanno traendo vantaggio da questa dinamica, e le loro vendite, stando alle fonti di Africa, continuano a crescere. Il wax di fascia alta è sempre più utilizzato da sartorie europee: tra gli esempi, quello della stilista Maria Grazia Chiuri, che nel 2019 ha usato il tessuto Uniwax per vestire le modelle di Christian Dior.
Sul fronte della strategia commerciale, spiega ad Africa il direttore marketing di Vlisco, Arnaud Pincet, l’azienda non ha alcun interesse a competere con gli asiatici abbassando i prezzi, ma punta all’innovazione: «Abbiamo un intero dipartimento che si occupa solo di studiare i colori, facciamo un lavoro di ricerca unico».

Metafora della globalizzazione
Paradossalmente, mentre in tutto il mondo il wax è apprezzato per l’aura di “africanità” che emana, in Africa il successo dei wax Vlisco è dovuto anche alla dicitura «vero wax olandese» che si legge, in inglese e francese, sui bordi di ogni singolo pezzo di tessuto. Come un orologio svizzero o un abito di lusso francese, un wax olandese può essere acquistato anche come bene rifugio. «Molte famiglie tramandano i loro wax di madre in figlia, proprio come potrebbero fare nonni e nipoti in Europa con un orologio di valore», aggiunge Arnaud Pincet parlando al cellulare, mentre passa i controlli all’aeroporto di Venezia. Sta tornando dalla Biennale d’arte contemporanea, dove Vlisco ha sponsorizzato il padiglione dedicato alla Nigeria.
Tra gli invitati di quest’anno c’è l’artista Yinka Shonibare, salito alla ribalta per le sue sculture rivestite di wax, esposte nei più importanti musei d’arte moderna del mondo. Con la sua doppia nazionalità, nigeriana e britannica, Shonibare è probabilmente il personaggio più adatto a fornire una chiave di lettura rispetto all’annoso dibattito sul significato del wax. La sua arte, si legge sul sito ufficiale, vuole «mettere in discussione la validità delle identità culturali e nazionali contemporanee nel contesto della globalizzazione».
Proprio come fa il wax, con la sua storia secolare e intricata.

Questo articolo è uscito sul numero 4/2024 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.

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