di Stefano Pancera
Dopo la rielezione di Donald Trump, molti leader africani hanno espresso apertura verso un miglioramento delle relazioni con gli Stati Uniti. La politica africana di Trump 2.0 potrebbe intensificare il commercio di minerali strategici e contrastare l’influenza cinese.
E se oggi per il presidente degli Stati Uniti Donald Trump i paesi africani non fossero più “shithole countries”? (definizione di “paesi di merda” del 2018). Quando era ormai chiaro che il nuovo inquilino della Casa Bianca era diventato per la seconda volta Donald Trump, molti leader africani hanno iniziato a twittare le loro congratulazioni. “Le sanzioni sono scomparse”, ha commentato a botta calda il presidente del parlamento Ugandese, Anitah Among, alludendo alla sua aspettativa di migliorare i legami con gli Stati Uniti sotto Trump. Lei infatti – insieme ad altri – è stata uno dei funzionari ugandesi a cui è stato impedito di entrare negli Stati Uniti a causa delle accuse di violazioni dei diritti umani.
Anche il presidente dello Zimbabwe, Emmerson Mnangagwa, che ha affrontato le sanzioni statunitensi, ha elogiato la vittoria di Trump, descrivendolo come un leader che “parla per il popolo”. «Lo Zimbabwe è pronto a collaborare con voi», ha dichiarato.
Il presidente del Senegal Bassirou Diomaye Faye, ha espresso desiderio di «rafforzare la cooperazione tra le due nazioni e di lavorare insieme per la pace, la prosperità e il rispetto dei valori comuni». E qualche giorno dopo ha telefonato a Puntin.
Il capo dello stato sudafricano Cyril Ramaphosa invece la telefonata l’ha fatta a Trump “Non vedo l’ora di continuare la stretta e reciprocamente vantaggiosa partnership tra le nostre due nazioni in tutti i settori della nostra cooperazione”.
Mentre Trump e il suo staff stanno mettendo a fuoco la politica estera africana Biden fra poco più di una settimana va in Agola: un viaggio programmato da tempo considerato “storico e memorabile” dall’incaricato d’affari dell’ambasciata americana.
Gli interessi commerciali tra i due paesi sono tali da giustificare la trasferta fuori tempo massimo. Basterebbe ricordare che la compagnia aerea angolana Transportes Aéreos de Angola ha recentemente siglato un accordo con Boeing per un valore complessivo di 3,6 miliardi di dollari. Comunque sia dopo la vittoria a Trump insieme agli auguri degli africani sono arrivate le dimissioni degli americani.
L’ambasciatrice americana in Kenya, la multimiliardaria Meg Whitman, si è dimessa. Lo stesso ha fatto Lucy Tamlyn, ambasciatrice degli Stati Uniti in Sudan. Dimissioni non per forza dovute.
Che cosa dunque accadrà davvero – con la prossima nuova amministrazione operativa al lavoro – tra Trump e i paesi del continente?
In un recente reportage Africa Report ha riassunto in tre punti la possibile rivoluzione africana di Trump2.0
Respingere in modo più energico gli sforzi della Cina che vorrebbe iscrivere nuovi alleati africani per controbilanciare l’ordine internazionale guidato dagli Stati Uniti.
Intensificare il commercio per i minerali strategici necessari agli Usa per affrontare la futura rivoluzione energetica anche se per Trump non è così urgente.
Impostare i nuovi rapporti con il continente basandosi esclusivamente sulla crescita economica, sui reciproci interessi e non sull’imposizione dei valori morali degli Stati Uniti.
Gli specialisti repubblicani prevedono che la nuova amministrazione Trump2.0 potrebbe richiedere un approccio più “transazionale e realistico” nel trattare con l’Africa.
Se l’amministrazione Biden ha basato tutto sulla promozione della democrazia e dei diritti umani non aspettiamoci gli stessi scrupoli morali da un presidente che ha ripetutamente condiviso la sua ammirazione per gli autocrati: dalla Cina, alla Russia, alla Corea.
“Le nazioni africane sono particolarmente (e ragionevolmente) non ricettive alle politiche sociali statunitensi come l’aborto e le iniziative pro-LGBT che vengono loro imposte”, scrive l’ex direttore del Dipartimento di Stato di Trump per la pianificazione politica Kiron Skinner nella sezione “diplomazia” del Progetto 2025.
“Penso che ci sarà un approccio più pragmatico basato sugli interessi con meno enfasi sulla predicazione, ma di conseguenza con meno attenzione sulla democrazia e sui diritti umani”, conferma Joshua Merservey, membro dell’Hudson Institute, un think tank di Washington DC.
Negli States più di un commentatore sostiene che ormai i tempi degli “shithole countries” siano acqua passata e che il Trump2.0 sarà giocoforza molto più attento all’Africa di quanto non lo sia stato in passato.
“L’Africa è più rilevante che mai”, afferma Peter Pham, ex inviato speciale di Trump per i Grandi Laghi e il Sahel. “Ci sono molte industrie che dipendono dalle terre rare e dai minerali che sono importanti in Africa su cui l’amministrazione Trump si potrebbe concentrare”
“Vedrete un nuovo aggressivo contrasto dell’influenza cinese in Africa”, ha detto Tibor Nagy, ex assistente segretario di Stato per gli affari africani sotto la passata ammirazione Trump ed ex ambasciatore in Guinea ed Etiopia.
La propensione di Trump per la diplomazia non tradizionale potrebbe aiutare a sbloccare alcuni conflitti congelati e un certo numero di ex funzionari dell’Africa di Trump sostengono in futuro un possibile pieno riconoscimento della Repubblica del Somaliland come contrappeso all’influenza cinese nel Corno d’Africa.
Tra i moltissimi punti di domanda restano per esempio l’atteggiamento sull’African Growth and Opportunity Act (AGOA), su cui Trump per ora ha detto poco o nulla, così come la sua aperta ostilità al multilateralismo africano, che è in pieno disaccordo con la tendenza in atto che vede una maggiore voce all’Africa nelle trattative internazionali.
Sono in molti del suo staff a pensare che Trump alla fine sarà molto più realistico che in passato e suggeriscono di guardare a ciò che fa piuttosto che a quello che dice. Una cosa è certa: l’Africa non può più essere ignorata. Neanche da Trump.