Nebbia sul Centrafrica

di claudia

di Enrico Casale


Il Centrafrica ha conosciuto momenti di maggior presenza sulla stampa internazionale. Nei giorni peggiori delle sue ricorrenti crisi, soprattutto. Ma, se oggi non se ne parla più, non è perché le cose vadano poi tanto meglio.

«Padre, dov’è la sua missione?». «In Centrafrica». «Ho capito, ma in quale Paese?». In questo dialogo, al limite del surreale, c’è tutta l’emarginazione che vive da decenni la Repubblica Centrafricana. Una nazione che, fatta eccezione per il periodo di Jean-Bédel Bokassa e del suo strampalato impero, e della visita del Papa nel 2015, è sparita dalle cronache internazionali. Se ne sa poco. Se ne legge poco. Eppure è un Paese percorso da dinamiche importanti sia dal punto di vista politico sia da quello economico e militare.

Dai giorni dell’indipendenza, l’ex colonia francese ha vissuto una situazione di profonda instabilità politica caratterizzata da continui colpi di stato. «Il Centrafrica», raccontava qualche anno fa un gesuita che ha lavorato per anni nel Paese, «ha conosciuto moltissimi colpi di stato. Tutti, però, rientravano dopo pochi mesi e la vita ritornava a scorrere come solito. Quello del 2012 è stato invece un golpe che ha cambiato nel profondo il Paese e ha portato allo sfacelo delle istituzioni e alla divisione della nazione». Nel 2012, la coalizione di ribelli Seleka, una milizia composta in gran parte da musulmani, porta alla caduta del presidente François Bozizé. Con la presa del potere della Seleka, a Bangui arriva Michel Djotodia, il leader della formazione. In Centrafrica è però ancora forte l’influenza della Francia, e Djotodia a Parigi non piace. Così è costretto a dimettersi e a lasciare il posto alla nuova presidente Catherine Samba-Panza, il cui compito è portare il Paese alle elezioni, protetta dalla missione militare Sangaris, a guida francese, e da una forza di stabilizzazione africana (Misca).

L’amico russo

Sia i militari francesi sia quelli ciadiani sono accusati di violenze sui civili, facendo venire loro meno il sostegno della popolazione. Alle elezioni del 2016 viene eletto Faustin-Archange Touadéra. La nuova presidenza cerca di rimettere in sesto le proprie forze armate. Per raggiungere l’obiettivo, Bangui deve chiedere la revoca sull’import di armi alle Nazioni Unite, e al Palazzo di Vetro trova la solidarietà della Russia. Mosca però non offre solo sostegno in sede Onu, ma si candida a essere un forte supporto del nuovo presidente.

«Il Centrafrica», spiega Marco Di Liddo, direttore e analista responsabile del desk Africa e Russia e Caucaso presso il Centro Studi Internazionali (CeSI), «è stato per Mosca il Paese nel quale lanciare il suo modello di penetrazione in Africa. È stato una sorta di laboratorio nel quale ha sperimentato modi d’azione poi applicati anche altrove, erodendo spazi all’Unione Europa e agli Stati Uniti». Da allora il Centrafrica è diventato una base importante per il Gruppo Wagner, che dopo la morte del suo fondatore è stato ribattezzato Afrikansky Korpus. «Sarebbe però limitante pensare che la penetrazione russa sia solo di carattere militare», continua Di Liddo. «È una sorta di pacchetto, quello che Mosca offre a Bangui. In esso c’è certamente l’assistenza militare, che comprende anche la formazione ai battaglioni d’élite centrafricani. C’è però anche la gestione delle infrastrutture (strade, aeroporti, ecc.) e delle miniere. In questo senso va anche detto che il Centrafrica, essendo un Paese sotto sanzioni e non potendo esportare le proprie materie prime, trova nel mercato russo uno sbocco che “ripulisce” oro e diamanti e li rimette nei circuiti internazionali. Non dimentichiamo infine che la Russia offre anche una sorta di patronage a Bangui: Mosca sostiene il Centrafrica nelle grandi organizzazioni, e viceversa. Un’alleanza proficua per entrambi».

Foto di ALEXIS HUGUET / AFP

«È cambiato poco»

Mosca non è la sola protagonista sulla scena centrafricana. Anche la Cina ha un ruolo importante. «È una presenza discreta», spiega un missionario da trent’anni nel Paese e che chiede l’anonimato. «I cinesi ci sono e sfruttano le miniere locali. Proprio di recente passavo vicino a un fiume e vedevo i segni delle sostanze usate per estrarre l’oro. Sono sostanze nocive che distruggono l’ambiente, uccidono animali e vegetazione, danneggiano le comunità locali». Quello della Cina è un interesse soprattutto economico, a differenza della Russia non ha truppe. Recentemente si è diffusa anche la voce di una presenza statunitense. Sembra che uomini della Bancroft Global Development, una società che offre servizi di sicurezza, lavorino per controllare e proteggere le concessioni minerarie nelle aree in cui operano gruppi armati. «La presenza Usa», continua Di Liddo, «non è determinante. Qui come altrove Washington opera non tanto per affermare una propria influenza quanto per perseguire una strategia geopolitica globale, della quale un tassello importante è il contenimento del terrorismo islamico».

La conclamata influenza esterna coincide anche con una profonda crisi politica interna. «La visita di papa Francesco a Bangui per aprire la Porta Santa (2015) e l’elezione del nuovo presidente», spiega ancora il missionario, «avevano portato speranza nella gente. Si pensava che in Centrafrica potesse aprirsi una nuova stagione di pace. È cambiato poco, ahimè. Il Paese vive uno stallo. Il presidente, che grazie a un referendum ha modificato la Costituzione, potrà candidarsi una terza volta. Sul terreno la situazione è rimasta invariata. Molte zone sono sotto il controllo delle milizie, che taglieggiano i civili e impediscono loro di lavorare e condurre una vita serena».

Ma la Chiesa insiste

In tale contesto, la Chiesa cattolica continua, instancabilmente, a far sentire la sua voce chiedendo pace, buon governo e uno sviluppo che sia sostenibile. Una voce che si leva nel silenzio sia dei media sia delle opposizioni. «Bisogna disarmare i cuori e le mani», spiega Aurelio Gazzera, missionario carmelitano, da poche settimane ordinato vescovo e incaricato coadiutore della diocesi di Bangassou. «E poi questo è un Paese che ha bisogno di strutture, di sviluppo. Invece non si vede nessun impegno. Le strade sono sempre più disastrate, nella capitale stessa. Se si pensa che per fare 750 chilometri ci vogliono un paio di settimane in macchina, nella stagione secca, vuol dire che non ci sono proprio infrastrutture. Ci vorrebbe un impegno più serio, da parte non tanto della comunità internazionale quanto delle autorità locali».

Mons. Gazzera però è ottimista. «Lavoriamo molto attraverso l’educazione dei giovani, nel favorire gli incontri, nel cercare di calmare gli spiriti. Siamo certi che è proprio attraverso questa azione, rivolta soprattutto alle nuove generazioni, che si può costruire un futuro migliore. È un cammino lungo, ne siamo convinti, ma è l’unica strada per cambiare davvero, nel profondo, questo Paese».

Questo articolo è uscito sul numero 4/2024 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.

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