L’Africa risponde a Trump

di claudia

di Stefano Pancera

Mentre Trump congela i dazi per 90 giorni, i Paesi africani adottano strategie diverse tra resistenza, adattamento e nuove scommesse geopolitiche.

Non gli “baciano il culo” ma non gli danno nemmeno un “calcio nel culo”. Potremmo sintetizzare così le reazioni di alcuni paesi del continente africano alla spregiudicata politica estera del cowboy di Washington e alle sue volgari esternazioni. Riflesso di un modo preciso di osservare il mondo. Sta di fatto che, per il momento, Donald Trump dopo le sbruffonate (che in borsa sono costate qualcosa come 10 mila miliardi di dollari) ha fatto marcia indietro ed ha congelato per 90 giorni la sua “guerra dei dazi”.

Con una perdita di credibilità enorme del suo paese: la borsa americana e il dollaro continuano ad andare malissimo. Senza parlare della conferma ai dazi folli sulla Cina, con tutto quello che ne consegue.


È l’Africa che ne pensa? come sta rispondendo alla politica economica estera americana?


Il commercio tra l’Africa e gli Stati Uniti è relativamente modesto, con un valore totale inferiore agli 80 miliardi di dollari all’anno. Questo dato è in calo rispetto alla crescita del commercio tra Cina e Africa, che nel 2024 ha raggiunto quasi 300 miliardi di dollari.


Nel 2024, i paesi africani hanno esportato beni negli Stati Uniti per un valore di 49 miliardi di dollari. Tuttavia, gli scambi non sono stati unilaterali: anche gli Stati Uniti hanno esportato in Africa beni per 32,1 miliardi di dollari, registrando un aumento dell’11,9% (pari a 3,4 miliardi di dollari) rispetto al 2023.


Ricordiamo comunque che il nuovo tabellone dei dazi americano prevede una tariffa minima del 10% per la maggior parte dei paesi africani. È importante sottolineare quindi che questi stati non rientrano nella “sospensione di 90 giorni”, applicabile esclusivamente alle tariffe superiori.

Per altri paesi africani i dazi (se e quando saranno ripristinati) saranno molto più pesanti: 50% per il Lesotho, 47% per il Madagascar, 40% per Mauritius, 32% per l’Angola, 30% per il Sudafrica, 21% per la Costa d’Avorio, 14% per la Nigeria. Solo per citare i più importanti.


La Banca Centrale della Nigeria ha reagito prontamente, vendendo quasi 200 milioni di dollari per sostenere la naira, la valuta locale. Se entro 90 giorni verrà reintrodotto il dazio del 14% sulle importazioni dalla Nigeria, l’impatto diretto sarà comunque limitato, poiché gli acquisti di petrolio e gas resteranno esenti dal provvedimento. Tuttavia, la misura potrebbe contribuire a una riduzione dei prezzi del petrolio.


Pretoria, al contrario, ha resistito all’azione immediata. Il presidente Cyril Ramaphosa ha detto che il suo governo sta considerando le future implicazioni delle tariffe. Il Sudafrica, membro del blocco BRICS, ha detto che avrebbe “forgiato alleanze globali” per diversificare le sue destinazioni di esportazione. Lo stesso ministro del Commercio Parks Tau ha detto al Financial Times che le nazioni africane dovrebbero ruotare verso altri mercati, compresa la Cina.

Cyril Ramaphosa

Anche se le esportazioni totali di auto verso gli States rappresentano solo l’8% del totale, il Sudafrica vede comunque minacciato il suo strategico settore automobilistico, fonte di 110.000 posti di lavoro diretti e quasi mezzo milione indiretti.

Emmerson Mnangagwa, presidente dello Zimbabwe, invece ha adottato una sua strategia sorprendente: ha annunciato inaspettatamente la sospensione dei dazi sui beni importati dagli Stati Uniti. Con questa mossa, sembra voler conquistare il favore di Washington, cercando forse di suscitare l’attenzione e la benevolenza di Donald Trump.


«È importante costruire una relazione reciprocamente vantaggiosa e positiva con gli Stati Uniti d’America, sotto la guida del presidente Trump», ha dichiarato Mnangagwa.

Emmerson Mnangagwa

Ha poi aggiunto che, in fondo, il principio dei dazi reciproci ha dei meriti ed è uno strumento utile per tutelare l’occupazione nazionale e proteggere i settori industriali.

Una mossa vista dagli esperti più come un gesto politico che come una strategia economica, dato che gli USA non sono fra i primi partner commerciali dello Zimbabwe, che vende e compra soprattutto da Sudafrica, Emirati Arabi Uniti e Cina.

In Kenya, il tono è decisamente cupo: il segretario di Gabinetto Musalia Mudavadi ha parlato senza mezzi termini di un “lungo periodo di adattamento”, prevedendo che potrebbero volerci “decenni” per invertire l’impatto delle nuove politiche Usa.

Altri sul continente – Lesotho, Madagascar e Mauritius – sono ancora più vulnerabili. Tutti e tre sono piccoli paesi a basso reddito che esportano abbigliamento. La speranza di molti analisti africani è che gli esperti delle agenzie statunitensi possano convincere gli architetti di questo schema a porre rimedio a questa situazione che definiscono “inspiegabilmente crudele”.

Le principali economie africane – almeno fino ad oggi – sembrano adottare strategie contrastanti e talvolta poco chiare nel rispondere alle tariffe del “Liberation Day”, quando verranno reintrodotte. Questo soprattutto perché la teoria di un nuovo ordine mondiale, ipotizzato da Donald Trump, si baserebbe sulla suddivisione del mondo in tre sole grandi ma precise sfere di influenza: un’area di influenza americana, una russa e un’area cinese. Un assetto che porterebbe indietro di decenni quel “multilateralismo funzionale” seguito oggi da molti leader africani che ambiscono ad avere rapporti con chiunque e non subire l’influenza di nessuno.

Comunque sia, la narrazione di un’Africa “povera” è contraddetta dalla realtà: al di là delle vaste risorse naturali, il continente detiene 2,5 trilioni di dollari in ricchezza investibile liquida da persone ad alto patrimonio netto e circa 2 trilioni di dollari di asset in gestione di fondi pensione, fondi sovrani e compagnie assicurative. Questi fondi sono detenuti in conti bancari o investiti in proprietà, azioni e strumenti di debito in Africa e all’estero. «È tempo che l’Africa rivoluzioni il suo approccio di finanziamento allo sviluppo», dichiara Amadou Hott, ex ministro dell’economia del Senegal.

E anche se Trump non si è ancora ufficialmente espresso sul tema chiave delle materie prime e terre rare del continente – in primis Repubblica Democratica del Congo, Zambia, Angola, Sudafrica – il consigliere senior per l’Africa presso il Dipartimento di Stato Massad Boulos (suo parente) in queste settimane ha riservatamente trattato con ciascuno di questi paesi.

Agoa: cronaca di una morte annunciata?


Formalmente, l’African Growth and Opportunity Act (Agoa) – l’accordo siglato nel 2000 che permette a 32 paesi dell’Africa subsahariana ritenuti idonei di esportare negli Stati Uniti senza dazi doganali su oltre 6.500 prodotti – scadrà a settembre. Se già esistevano dubbi sul suo possibile rinnovo, con la nuova politica estera adottata dall’amministrazione Trump appare ormai chiaro che l’Agoa sia destinato a scomparire definitivamente.

Quest’anno sarà decisivo per le relazioni economiche tra l’Africa e gli Stati Uniti.

I paesi del continente sembrano avere almeno tre possibilità: abbassare i propri dazi doganali e sperare nel buon cuore di Trump (improbabile), promuovere le proprie esportazioni verso altri partner commerciali (difficile) oppure sviluppare il commercio intra-africano che è ancora agli albori con un mercato di 1,4 miliardi di persone (possibile).

Se l’Unione Africana (UA) «incoraggia gli Stati Uniti a riconsiderare la decisione dei dazi e crede nella costruzione di ponti, non di barriere e rimane impegnata a lavorare con gli Stati Uniti per promuovere partnership reciprocamente vantaggiose»,l’African Continental Free Trade Area (Alecaf) – trattato internazionale che ha istituito la più grande zona di libero scambio al mondo tra paesi africani – sembra poter offrire almeno sulla carta molte opportunità per un impegno economico più profondo e esente da dazi.

Il paradosso del sostegno a Trump


Colpisce, mentre il mondo è in fibrillazione, un nuovo studio della piattaforma di decision intelligence Kasi Insight. Un report svelerebbe un paradosso: secondo un sondaggio dello scorso febbraio il 54% degli africani approverebbe la leadership di Donald Trump.


Kasi Insight, con sede in Canada e Kenya, rivelerebbe un cambiamento: gli africani non stanno solo “approvando” politiche controcorrente, ma stanno ripensando radicalmente il loro ruolo nel sistema internazionale. Con oltre 12.000 interviste mensili in 21 paesi, la piattaforma combina dati ad alta frequenza e intelligenza artificiale per offrire insights su consumatori, mercati e trend politici.

Lo studio ha rivelato che la maggioranza degli africani approverebbe la leadership di Donald Trump, con picchi del 72% in Nigeria. Ma ciò che colpisce non è solo il sostegno a politiche controverse, bensì un paradigma emergente: solo il 12% dei cittadini desidera legami più stretti con gli USA, mentre il 42% punta sul commercio intra-africano e il 25% guarda ai BRICS.

Se «il bacio dei glutei» auspicato da un presidente che spaccia la volgarità per sincerità è stato solo un pessimo “Trumpshow”, il vero appuntamento sarà al prossimo World Economy Summit che si terrà dal 23 al 25 aprile a Washington, DC.

Condividi

Altre letture correlate: