di Luciana De Michele
Visita all’Abbazia di Keur Moussa, tempio della musica sacra in Senegal, dove una quarantina di frati benedettini passano le loro giornate alternando lavoro e preghiera, senza mai smettere di cantare (in latino e in wolof) le lodi al Signore, accompagnati dai suoni dell’organo e della kora senegalese…
Oltrepassato il villaggio di Keur Moussa (che in lingua locale significa “Casa di Mosè”), a cinquanta chilometri da Dakar, una strada conduce nel cuore della fitta vegetazione. Ad un certo punto il suono di una campana preannuncia il levarsi di un coro solenne e imperscrutabile. Proseguendo a camminare, il segreto è ben presto svelato: nel bel mezzo della selva un monastero spalanca le sue porte verso una chiesa bianca. All’interno una ventina di monaci avvolti in candide tuniche – in gran parte africani – si apprestano a celebrare la liturgia della messa. «Benvenuta nell’Abbazia del Cuore Immacolato di Maria», saluta accogliente fra’ Thomas Gomis, senegalese, 49 anni di cui 25 consacrati alla vita monastica. «Questo monastero – racconta – fu creato nel 1962 da nove benedettini francesi. All’epoca qui c’erano solo savana e capanne. Oggi il villaggio di Keur Moussa è cresciuto. La popolazione circostante è in larga parte musulmana. Ma le differenze religiose contano poco: abbiamo ottimi rapporti con la gente del posto, che ci rispetta», continua fra Thomas.
Incantati dalla musica
Nell’abbazia vivono una quarantina di monaci di otto nazionalità diverse, provenienti soprattutto dall’Africa Occidentale. Due sono francesi. L’ottantasettenne Domenique Catta è l’unico tra i fondatori del monastero ancora in vita. «Fummo i primi a introdurre l’utilizzo della kora (strumento a corde tipico dell’Africa Occidentale, Ndr) nella liturgia cattolica», ricorda con orgoglio fra’ Dominique nella sua tunica grigia. Tutto iniziò quando i suoi superiori lo inviarono in Senegal per studiare la musica locale. «Mi spedirono nei villaggi con un registratore… E rimasi letteralmente incantato dai canti tradizionali». Fra’ Domenique decise di inserire alcuni canti nella liturgia ecclesiastica. «Adattai le parole di alcuni salmi traducendoli in wolof. Poi cominciai a studiare la kora. Ero innamorato dal suo dolce suono, a metà tra quello di un’arpa e di un liuto. Invitai al monastero un cantastorie mandinga con la sua kora: gli chiesi di insegnarmi a suonare lo strumento».
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Maestri liutai
Da allora i canti delle messe nel Monastero di Keur Moussa vengono accompagnate dal suono della kora e di altri strumenti tradizionali senegalesi: le calabasse (grandi zucche usate come percussioni), il balafon (xilofono in legno) e il jembe (un grande tamburo). In cinquant’anni i monaci hanno inciso molti cd, venduti in tutto il mondo. «La nostra fama è aumentata negli anni grazie ai concerti in alcune cattedrali europee e ai riconoscimenti ottenuti in importanti festival musicali», commenta fra’ Jean Paul. Ma non è tutto. Nel Monastero si è sviluppato un vero laboratorio di costruzione di kore. «Con l’esperienza abbiamo apportato alcune modifiche alla versione tradizionale dello strumento per migliorarne la qualità… Per creare le kore migliori utilizziamo pelli di vacca e zucche recuperate in Senegal, corde importate dalla Francia e chiavi speciali procurate in Giappone… Produciamo una cinquantina di strumenti all’anno, li mettiamo in vendita a non meno di 500 euro e riceviamo ordini da ogni parte del mondo», spiega Paulin Séne, l’unico laico lavora nell’atelier musicale.
Formaggi e marmellate
I proventi della vendita dei cd e delle kore non sono le uniche fonti di autosostentamento del monastero. I monaci, da bravi benedettini, lavorano la terra, producono succhi, marmellate, aperitivi alla frutta, vini e formaggi. Nei 14 ettari di terreno disponibile, e grazie alla collaborazione dei contadini locali, i frati coltivano insalata, ortaggi, cipolle e alberi da frutto. Fra Marie-Firmine, 31 anni di cui nove trascorsi in clausura, è il responsabile del frutteto di banane e papaye. «Vendiamo il raccolto ai clienti ormai abituali che vengono con i loro veicoli a ritirarlo. Con la papaya ci facciamo anche marmellate e succhi, destinate alla nostra boutique. Stessa sorte tocca agli agrumi coltivati negli altri frutteti», spiega il monaco che ha sostituito tunica e sandali con tuta blu e stivali per il lavoro nei campi. Poco più in là sorge l’edificio dove si trasforma la frutta raccolta in deliziose bevande. «Ne produciamo 240 litri al giorno», spiega fra Simon-Marie Sarr. «La gran parte finisce nei ristoranti e negli hotel di Dakar», aggiunge il monaco. Stessa destinazione hanno i formaggi di cui si occupa fra Jean-Marie Rouzeaud, francese consacratosi alla vita religiosa. «Compriamo il latte di capra dai pastori di etnia peul. Con sessanta litri produciamo 80 piccole forme», puntualizza mentre sparisce dentro una cella frigorifera. Fuori il suono della campane si intreccia alle voci dei muezzin che richiamano alla preghiera.