Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, in una dichiarazione rilanciata da tutti i media, ha paventato il rischio di un possibile intervento militare in Libia. Ma come potrebbe essere strutturato un intervento manu militari? Intanto bisognerebbe valutare bene la reale forza del nemico. In Libia si tratterebbe di affrontare un avversario che, secondo alcuni analisti, dovrebbe avere una forza complessiva di almeno duecentomila miliziani. È vero che si tratta di combattenti senza un addestramento militare serio e con armamenti abbondanti, ma non recenti e non in ottime condizioni. Ma sono comunque miliziani che combattono sul loro terreno. In zone che conoscono bene. Probabilmente con un buon appoggio della popolazione, almeno a livello locale. Alcune milizie sono anche ben motivate dal punto di vista ideologico.
L’Italia dovrebbe quindi mettere in campo una forza che, numericamente, pareggi quella libica. Ma dove trovare gli uomini? Il nostro esercito ha centomila uomini, molti di essi però non sono operativi e, poi, non tutte le brigate operative sono in grado di affrontare una spedizione come quella libica. In tempo di crisi e di tagli alla spesa, dove potrebbero essere reperiti i milioni di euro necessari per un’operazione simile (pensiamo solo alle spese per le armi, i trasporti, il mantenimento dei soldati, ecc.).
È quindi da escludere un intervento autonomo del nostro Paese. All’Italia servirebbero alleati. In campo europeo gli unici Paesi interessati potrebbero essere la Francia e la Gran Bretagna. La Francia, in particolare, perché da un lato intende difendere i propri interessi in Nord Africa (Algeria, Niger, Mali, ecc.), dall’altro non disdegnerebbe estendere anche alla Libia la propria sfera di influenza. Ma all’Italia converrebbe dare spazio alla Francia? Londra, come gli Stati Uniti, pur seguendo con attenzione la crisi, ha mantenuto negli ultimi mesi una sorta di distacco. Difficile che presti proprie truppe a un’operazione simile.
A Roma non rimarrebbe che allearsi con una fazione libica. Ma quale? Finora l’Italia ha sempre cercato di mantenersi equidistante (o quasi) tra il Governo di Tripoli, dominato da partiti della galassia della Fratellanza musulmana (islamisti, ma non terroristi), e quello di Tobruk, gestito da formazioni «laiche». Si tratterebbe di abbandonare la prudenza e schierarsi, tenendo presente che i nostri interessi sono più concentrati in Tripolitania (la regione occidentale) che non in Cirenaica.
La decisione, anche trascurando il non indifferente problema delle eventuali vittime italiane (non possiamo pensare di entrare in guerra senza tenere conto del sacrificio umano), non è quindi semplice. Forse, come ha detto Romano Prodi in un’intervista rilasciata ieri a Rai News 24, sarebbe meglio escludere l’opzione militare e concentrarsi sulle opzioni diplomatiche che, al di là delle apparenze, possono ancora produrre frutti. Soprattutto cercando di portare al tavolo dei negoziati tutte le parti in causa o almeno quelle che insieme posso rappresentare una valida barriera al diffondersi della minaccia dell’Isis.