In Zimbabwe gli agricoltori bianchi sono tornati essere un obiettivo del regime. La Commercial Farmrs’ Union (Cfu), un tempo potente organizzazione dei coloni bianchi, ha denunciato che nelle ultime settimane si sono verificati una ventina di «incidenti» nel corso dei quali aggressori hanno intimato agli agricoltori bianchi di lasciare le terre entro 90 giorni (ma ad alcuni è stato dato un tempo più breve: 45 o 30 giorni). Secondo Hendrik Oliver, il direttore della Cfu, la richiesta di abbandonare le proprietà non si fonda su alcun ordine da parte delle autorità. Anche se qualche settimana fa, il vicepresidente Emmerson Mnangagwa ha affermato che il Governo di Robert Mugabe avrebbe espropriato altre terre agli ex coloni britannici (che però da tempo hanno la cittadinanza zimbabwiana).
Questo nuovo attacco ai farmer bianchi arriva a 15 anni dalla contestata riforma agraria voluta dal Presidente Robert Mugabe. Allora la decisione di espropriare i terreni era stata presentata come una rivincita degli africani sugli ex colonizzatori, ma di fatto portò al crollo dell’economia zimbabwiana. La produzione agricola infatti collassò e con essa fallirono le aziende di trasformazione dei prodotti agricoli. Anche allora, come oggi, le tenute vennero invase da povera gente istigata dal partito al potere (Zanu Pf). Agli squatter, come venivano chiamati gli occupanti, non venne però riconosciuto alcun diritto sui terreni dei bianchi che, di fatto, ne rimasero proprietari.
Molti di essi però lasciarono il Paese. Se alla fine degli anni Novanta i farmer bianchi erano quattromila, oggi non sono più di 300. Alcuni di essi si sono trasferiti in Malawi, Mozambico e Zambia, dove i rispettivi Governi hanno affidato loro tenute da coltivare, conoscendone le grandi doti di agricoltori. Altri si sono rifugiati in Australia o in Nuova Zelanda.