In morte del leone Cecil

di Enrico Casale
leone cecil

Leone CecilFinora non abbiamo voluto aggiungere la nostra alle tante voci che sono intervenute sulla morte del leone Cecil in Zimbabwe. Non ritenevamo di dover partecipare al coro delle opinioni di condanna, alle minacce all’oscuro dentista americano che gli ha sparato a morte, alle cassandre ambientaliste. Ora però pensiamo sia nostro dovere dire la nostra. Non come giornalisti, ma come amanti dell’Africa.

Facciamo una premessa. La morte di Cecil ci addolora. È triste vedere morire un animale così bello e così fiero. Allo stesso tempo riteniamo che il suo uccisore sia un cretino (perdonateci il termine volgare). Solo un cretino può pagare i bracconieri per organizzare una falsa battuta di caccia dall’esito scontato.

Detto questo, bisogna andare alla radice della questione: perché tanto clamore per l’uccisione di un leone? Perché si sono spesi fiumi di inchiostro per scrivere di questa (lo ripetiamo: deprecabile) morte di un animale? Perché, per giorni e giorni, opinionisti si sono concentrati su questo tema? Sarebbe troppo facile fare leva sui sentimenti e dire che, in tre giorni, per un leone si sono spese più parole che in 24 (ventiquattro) anni di guerra e carestia in Somalia. Sarebbe troppo facile dire che Cecil ha destato la pena più delle centinaia di persone che da 17 (diciassette) mesi vengono sistematicamente uccise in Beni (R.D. Congo) nel più totale silenzio mediatico. Sarebbe troppo facile dire che un’azione (lo ripetiamo: imbecille) di bracconaggio ha attirato l’attenzione più che i migliaia di profughi che fuggono ogni giorno dalle proprie case in Sud Sudan a causa di una guerra civile ferocissima.

No, noi pensiamo che dietro il clamore per la notizia dell’uccisione di Cecil ci sia di più. Ci sia la profonda ignoranza e indifferenza della stragrande parte dell’Occidente (Italia in particolare) nei confronti del continente africano. Per la maggior parte di noi l’Africa è ancora e solo la terra dei leoni. «Hic sunt leones» scrivevano i latini sulle mappe, per dire che oltre al deserto del Sahara c’era una terra sconosciuta. Ecco, per molti di noi l’Africa è ancora e solo la terra dei leoni, delle palme e dell’esotismo. Non interessa che sia un continente in evoluzione. Ricco di culture millenarie. Con una popolazione giovanissima, istruita e dinamica. Con fermenti politici che noi non immaginiamo neppure (pensate alle rivolte in Burundi e in Burkina Faso per invocare un’autentica democrazia). Nessuno però ne parla.

E questo non solo è un peccato (l’ignoranza voluta è sempre un peccato), ma è anche un’ottica miope. L’Africa non è lontana. Le coste libiche sono a pochi chilometri di distanza dalle nostre. Conoscere chi ci è vicino ci aiuta nelle relazioni con lui. Le facilita. Non le drammatizza. Il fenomeno dell’immigrazione è la cartina tornasole della nostra profonda ignoranza. L’isteria con la quale la affrontiamo è il sinonimo della nostra indifferenza. Una indifferenza che spesso diventa ridicola. Ci raccontava un monaco copto egiziano che un giorno stava viaggiando in metropolitana. Come sempre era vestito con il suo lungo abito nero e una grande croce al collo. Una signora gli si avvicina e gli chiede: «Ma lei da dove viene?»- Lui gentile: «Dall’Egitto, sono un monaco egiziano». E la signora con naturalezza: «Ah lei è un egiziano, ma lo fa il Ramadan?».

Ecco per noi l’Africa è ancora terra dei leoni. Uno di questi si chiamava Cecil.

Enrico Casale

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