A Cannes un film su un doloroso tabù in Ciad

di claudia

Oggi vi presentiamo uno dei film che partecipa alla selezione ufficiale del Festival di Cannes: “Lingui, the Sacred Bonds“, del regista ciadiano Mahamat- Saleh Haroun. L’opera ha il pregio di raccontare, con umanità e coraggio, un tema delicato e dibattuto come quello dell’aborto. In Ciad questa pratica è ancora condannata, sia dalla religione che dalla legge.

di Annamaria Gallone

LINGUI significa “legami sacri, solidarietà, il sacro vincolo del nostro tessuto sociale” ed è anche il titolo del film che Mahamat- Saleh Haroun ha presentato in competizione ufficiale alla 74° edizione del Festival di Cannes. Presentato il primo giorno del concorso, senza attirare su di sé tutta l’attenzione dei media che si concentrano sui film scintillanti di star hollywoodiane, il film del regista ciadiano è ancora una volta un piccolo gioiello. Ho già avuto modo di sottolineare la mia ammirazione per il lavoro di Haroun, il cui valore hanno dimostrato i tanti festival a cui ha partecipato. Aveva ottenuto il plauso della critica per i suoi cortometraggi prima ancora di dirigere il suo primo lungo, Bye-bye Africa (miglior opera prima, Festival di Venezia 1999) che racconta per immagini lo sconcerto di un intellettuale che da Parigi ritorna in Africa, per il funerale della madre. Ad oggi ha realizzato sei lungometraggi. Per citarne qualcuno, Daratt, il perdono, è secondo me uno dei più bei film della recente cinematografia africana, in cui, con la sua consueta sobrietà e i significativi silenzi, il regista realizza un manifesto per la pace. Tutti i suoi film sono girati in Ciad, con una sola eccezione, Une saison en France, con Eriq Ebouaney e Sandrine Bonnaire, che traccia con profonda sensibilità la tragedia quotidiana dell’immigrazione clandestina. Al suo attivo un solo lungometraggio documentario Hissein Habré, A Chadian Tragedy, selezionato anch’esso al Festival di Cannes, un’analisi del dittatore ciadiano che ha governato dal 1982 al 1990.

Haroun è uno dei pochissimi registi africani ad avere il proprio lavoro distribuito in Europa e negli Stati Uniti. E anche il suo ultimo, in concorso quest’anno a Cannes, Lingui, the Sacred Bonds, è degno di nota per un’altra ragione: è tornato nel suo Ciad natale per raccontare una storia su una questione dolorosa e dibattuta: l’aborto, che è un tabù nel Paese. Lui, che fin dall’infanzia è stato circondato dalle donne della sua famiglia ed è stato cresciuto da una nonna “straordinaria” che lo ha sensibilizzato alla causa delle donne, da sempre affronta questioni scottanti nel suo lavoro. È arrivato sulla scena cinematografica internazionale con una grande attenzione per le ampie preoccupazioni politiche del suo paese d’origine, di cui è stato anche Ministro della cultura per due anni e il suo impegno non è mai venuto meno.

Il regista Mahamat- Saleh Haroun

La trama

La storia si svolge alla periferia di N’djamena, dove Amina, una trentenne musulmana, vive da sola con la sua unica figlia quindicenne, Maria. La donna è sconvolta quando scopre che Maria è incinta. L’adolescente non vuole questa gravidanza. In un Paese dove l’aborto non è solo condannato dalla religione, ma anche dalla legge, Amina si trova ad affrontare una battaglia che sembra persa in partenza… Interessante il fatto che il film scelga la prospettiva non della ragazza, ma di sua madre, poiché la situazione di sua figlia la costringe a riconsiderare le regole sociali e religiose che non sono mai servite a nessuno dei due. Il regista si sofferma sul volto della donna, sui suoi gesti, sul suo portamento che cambiano durante il film, man mano che la donna si trova a combattere per la propria figlia. E tuttavia Maria ha il comportamento ribelle tipico dell’adolescenza e si ribella al consiglio della mamma di portare avanti la gravidanza. “Non voglio essere come te, mamma: tutti pensano che tu sia una donna libera”. Eppure Amina, fin dalla prima inquadratura, ci appare come una donna forte e risoluta. Per Maria è disposta proprio a tutto.

Girando ancora una volta per le strade polverose color ocra, con gli abiti delle donne dai magnifici colori, il regista sembra immergersi più che mai nel suo luogo natio, nei suoni, nei colori, raggiungendo una bellezza estetica che nulla toglie al coraggio della scelta tematica: sfidare il patriarcato dominante in Ciad e in particolare le severe leggi del paese sull’aborto.

“Le gravidanze indesiderate stanno diventando un problema sempre più importante”. “Ci sono sempre più rapporti di persone che scoprono neonati abbandonati, spesso morti. È orribile. Tutto questo a causa dei divieti e della vergogna di portare un cosiddetto ‘figlio illegittimo’. Inoltre, gli aborti clandestini sono pericolosi, con fini spesso tragici, dato che molte delle persone che eseguono gli aborti sono ciarlatani“- ha detto il regista in una recente intervista con IndieWire – “So che è proibito e ho sentito un sacco di storie di giovani ragazze che rimangono incinte e poi devono abortire, ed è un modo molto difficile di trovare una soluzione, perché la famiglia non è d’accordo con l’aborto, e non vogliono nemmeno che tu tenga il bambino, perché è una vergogna per loro”. “Si perde l’onore. Così ho fatto un’indagine con donne che si sono trovate in questo tipo di situazione, e poi ho scritto la storia. Lì, abbiamo questa cosa che chiamiamo Patriarca, che è solo il potere dominante degli uomini che sono in carica che fanno queste leggi”.

E ancora una volta questo regista è da ammirare non solo per la sua compiuta professionalità, ma per la sua umanità e il suo coraggio.

L’autrice dell’articolo, Annamaria Gallone, tra le massime esperte di cinema africano, terrà a Milano il 16 e 17 Ottobre 2021 il seminario “Schermi d’Africa” dedicato alla cinematografia africana. Per il programma e le iscrizioni clicca qui

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