Oggi vi presentiamo il film della regista tunisina Leyla Bouzid, “Une histoire d’amour et de desire” , che ha chiuso la la Semaine de la critique della 74° edizione del Festival di Cannes. L’opera mostra un soggetto poco comune del cinema, specialmente di quello tunisino: la fragilità degli uomini. Il film ha inoltre il pregio di aver messo in risalto il valore della cultura letteraria araba del passato
di Annamaria Gallone
Con “Une histoire d’amour et de desire” della tunisina Leyla Bouzid si è chiusa la Semaine de la critique della 74° edizione del Festival di Cannes, uno spazio dedicato al primo o secondo film dei registi emergenti, che ha avuto il merito di lanciare grandi talenti divenuti famosi nel mondo. Leyla è al suo secondo film, dopo “À peine j’ouvre les yeux”, presentato al Festival di Venezia nel 2015 e pluripremiato nel mondo.
Con questa opera seconda Leyla affronta con determinazione un soggetto poco comune nella cinematografia in generale e in particolare quella tunisina: la fragilità degli uomini, la loro difficoltà ad affrontare la loro “prima volta” sessuale, ma, cosa particolarmente meritoria, come ha sottolineato Charles Tesson, delegato generale della Semaine, è l’aver messo in risalto il valore della grande cultura letteraria araba del passato, evitando per una volta il tema dell’estremismo islamico.
Ahmed, 18 anni, francese di origine algerina, è cresciuto nella periferia di Parigi. Sui banchi della Sorbonne incontra Farah, una giovane tunisina piena di energia appena sbarcata a Parigi. Il ragazzo scopre un corpo di letteratura araba sensuale ed erotica di cui non ha mai saputo l’esistenza e si innamora perdutamente di Farah e, sebbene sopraffatto dal desiderio, cerca di resistervi per timidezza e perché porta il peso della sua cultura. La regista ha saputo scegliere due protagonisti perfetti: lei con una capigliatura di ricci rossi, libera, diretta, senza tabù, barriere e pregiudizi, lui bruno, grandi occhi spalancati su un mondo che non conosce, taciturno, spesso corrucciato. Nonostante le scene di sesso e i dialoghi spesso audaci, il film non rasenta mai la volgarità.
Attraverso una storia semplice e intelligente, Leyla Bouzid riesce ad affrontare tutta la complessità delle turbolenze che animano corpi e menti. Ahmed rispecchia le aspirazioni autocensurate di chi vive ai margini, dove anche la questione della sessualità si basa su regole non dette. Il film nasconde sotto le sue apparenze di classica storia di coming-of-age una grande originalità e diversi livelli di letture sociali, all’incrocio tra istinto e riflessione, repressione e liberazione. Perché alla domanda del poeta, “Si può consumare l’amore puro?” la vita offre naturalmente le proprie risposte.
“All’inizio della scrittura della sceneggiatura– dice Leyla- mi sono chiesta se i Tunisini mi avrebbero rimproverato di girare un film in Francia, in lingua francese, ma poi ho provato il grande piacere di poter fare ciò che volevo, ed è questo che conta.”
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L’autrice dell’articolo, Annamaria Gallone, tra le massime esperte di cinema africano, terrà a Milano il 16 e 17 Ottobre 2021 il seminario “Schermi d’Africa” dedicato alla cinematografia africana. Per il programma e le iscrizioni clicca qui