Kasha Jacqueline Nabagesera è un’attivista lesbica ugandese che, in un contesto difficilissimo, combatte le discriminazioni ai danni di persone omosessuali e trans.
Kasha Jacqueline Nabagesera è un’attivista Lgbt che in Uganda si batte contro le discriminazioni di cui sono vittime omosessuali e trans. 40 anni, è considerata un’icona della lotta per i diritti civili in Africa. In questa intervista si confessa.
Com’è la vita per una persona omosessuale o trans in Uganda?
Le minoranze sessuali nel mio Paese vivono costantemente nella paura a causa della criminalizzazione della loro sessualità o della loro identità di genere. L’Uganda applica leggi draconiane per perseguitare chiunque venga percepito come appartenente alla comunità Lgbt. Le conseguenze: licenziamenti, incarcerazioni, allontanamento da scuole e chiese, il ripudio della famiglia e degli amici.
Nel 2003 hai fondato Farug, la prima associazione lesbica, bisessuale, transessuale in Uganda. Sei stata spesso attaccata, verbalmente e fisicamente, sei stata arrestata, hai dovuto cambiare casa più volte, hai vissuto situazioni alla James Bond. Il prezzo che paghi per la tua battaglia di civiltà è altissimo. Eppure non ti arrendi: dove trovi la forza?
Mi ha motivato la rabbia. Ero stufa di vedere persone che soffrivano a causa di coloro che amavano, così, invece di dispiacermi e lamentarmi delle ingiustizie e dei pregiudizi, ho deciso di impegnarmi per porre fine alle discriminazioni. Ma non faccio nulla di straordinario. E, in ogni caso, nella battaglia non sono sola. Molte persone, lontane e vicine, danno un prezioso sostegno a me e alla mia comunità, e anche questo mi spinge ad andare avanti.
In questi anni, in Uganda sono accaduti fatti terribili: il disegno di legge soprannominato “Antigay”, periodicamente riportato in auge dal Parlamento a partire dal 2010; la campagna di odio di esponenti politici e religiosi amplificata dai media; l’uccisione, nel 2011, di David Kato, padre del movimento Lgbt ugandese. Azioni violente nei confronti di gay, lesbiche, transessuali che negli anni hanno indotto centinaia di cittadini ugandesi a lasciare il proprio Paese. Che cosa ti fa più male in tutto questo? E cosa possiamo fare dall’Italia?
Le continue discriminazioni, lo stigma e le bugie sulla mia comunità feriscono ogni centimetro del mio corpo. Lungo gli anni abbiamo perso molti membri della nostra comunità a causa dell’odio. C’è stato l’esodo di tanti che hanno lasciato il Paese per chiedere asilo altrove. Tutto questo a volte mi fa sentire sola. Gli anni passati sono stati veramente duri e chissà cosa ci riserverà il futuro se non continuiamo ad avere sostegno e supporto dentro e fuori dall’Uganda.
L’empatia, la costruzione di una rete, la condivisione di risorse: questo è il contributo che molti possono dare alla nostra comunità. Abbiamo bisogno di risorse economiche, morali, tecniche. Non possiamo vincere questa battaglia da soli. Possiamo vincerla battaglia solo se uniamo le nostre forze ai movimenti per la giustizia sociale, a quelli religiosi, al movimento delle donne, a chi si occupa di salute…
L’omofobia è una piaga che interessa molti Paesi africani (e non solo). Come mai solo l’Uganda è finita sotto i riflettori dei media internazionali?
Il mio Paese attira di più l’attenzione perché qui ci sono attivisti e attiviste disposti a parlare apertamente e a far conoscere al mondo le condizioni critiche in cui vivono. Altrove, le persone hanno paura di mostrarsi. Esporsi comporta un prezzo da pagare molto elevato, di cui siamo ben consapevoli. Ma l’Uganda non è il Paese più omofobo al mondo. In altri, avvengono cose peggiori e più pericolose per gli attivisti Lgbt.
Ci parli del tuo ultimo progetto, “Kuchu Times”?
Kuchu Times Media Group è un’iniziativa mediatica per la comunità lesbica, gay, bisessuale, transgender e intersex in Africa. La piattaforma è costituita da un sito web (kuchutimes.com), una radio, una tivù e una rivista (Bombastic Magazine). Ogni giorno la realtà vissuta dalle persone Lgbt viene condivisa attraverso dibattiti, discussioni, storie, filmati. Vogliamo far conoscere all’esterno chi siamo e in questo modo modificare l’atteggiamento negativo diffusosi nella popolazione nei nostri confronti. La piattaforma ha avuto oltre 5,8 milioni di visitatori in cinque anni; sono stati più di 8 milioni i download delle prime quattro edizioni di Bombastic.
(testo di Manuela Fazia – foto di Frederic Noy/Luz)