Sono opposte le reazioni registrate in Africa e in Occidente alla notizia della morte dell’ex presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, indiscusso protagonista della scena politica degli ultimi quarat’anni. Cosa si cela dietro questa stridente diversità di vedute e di giudizi?
“Eroe” o “brutale dittatore”, “padre della patria” o “tiranno”, “politico eccezionale” o “pazzo corrotto”, “statista” o “despota diabolico”, “combattente per la libertà” o “archetipo del dittatore africano”. Basta guardare rapidamente alle prime reazioni che stanno circolando sulla stampa di tutto il mondo alla notizia della sua morte per comprendere tutta la complessità di una figura come quella dell’ex-presidente dello Zimbabwe Robert Gabriel Mugabe.
Quello che appare chiaro immediatamente è come gli aggettivi che accompagnano il nome e i “coccodrilli” (termine giornalistico per indicare gli articoli preparati in anticipo e che ripercorrono la vita di personalità di primo piano) dividano in due il pianeta.
Da un lato c’è l’Occidente, che sembra riportare la notizia (seguendo a passo di marcia le grancasse della stampa inglese) della morte del “dittatore” quasi con un sospiro di sollievo, dall’altro c’è l’Africa che piange il “rivoluzionario”. Nella geografia disegnata dalle reazioni e dagli aggettivi che accompagnano il nome di Mugabe Stati Uniti, Europa, Australia stanno da un lato mentre importanti paesi africani (Kenya, Sudafrica, Nigeria, Tanzania), latinoamericani e Cina stanno dall’altro. Nelle prossime ore, c’è da giurarci, i giudizi e gli aggettivi, di un colore o dell’altro, si arricchiranno. E questa faglia interpretativa si allargherà ulteriormente. Perché in mezzo a questa faglia c’è il colonialismo.
Per l’Occidente, e per gli europei in particolare, il colonialismo (così come lo schiavismo) è una paginetta in un libro di storia. Una parentesi relativamente breve, che per molti ha forse portato più benefici che danni e che tutto sommato è ormai una pagina chiusa. Per l’Africa (e per molte zone del Sud del Mondo) invece il colonialismo è una ferita ancora ben aperta, che ogni tanto duole ancora e che qualche volta è ancora purulente.
La schizofrenia planetaria che nelle ultime ore, così come negli ultimi vent’anni, ha contraddistinto il giudizio su Mugabe, sta tutta nel fatto che sul colonialismo occidente e resto del mondo hanno fatto terapie diverse. La differenza di vedute sta nel fatto che se per l’Occidente il colonialismo è ormai relegato ai libri di storia, per l’Africa le sue ombre ancora oggi inquinano politica ed economia di non pochi Paesi che lamentano le intromissioni, le ingerenze di questa o quella ex-potenza coloniale. Mugabe, in un certo senso ha incarnato, incarna e, c’è da scommetterci, incarnerà ancora, questa contraddizione.
Il Mugabe dittatore che era stato dichiarato “persona non grata” per l’Inghilterra e il Commonwealth negli ultimi 20 anni, solo qualche anno prima (nel 1994) era stato insignito del più alto titolo di onorificenza dell’Impero Britannico, quello di Cavaliere dell’Eccellentissimo Ordine dell’Impero britannico, Knight Commander dell’Order of the British Empire (KBE).
Ma Mugabe – che ha collezionato sette lauree molte delle quali conseguite durante gli anni di prigionia della lotta contro il colonialismo e la supremazia bianca in Zimbabwe e in tutta l’Africa australe – aveva ricevuto anche Lauree ad Honorem dall’Università di Edimburgo o dalla prestigiosa Università del Massachusetts, tutte poi rigorosamente revocate (primo e unico caso nei 150 anni di storia del Massachusetts) quando l’ex-presidente dello Zimbabwe era passato nella lista dei cattivi. È probabilmente il destino di un protagonista di più di mezzo secolo di storia di un Paese e di un intero continente quello di lasciare un’immagine controversa. Con la sua morte, ora il giudizio su Robert Gabriel Mugabe passerà alla Storia. E la Storia, col tempo e il lavoro documentato degli storici, è in grado di restituire un’immagine meno sfuocata o viziata da pregiudizi o posizioni.
(Massimo Zaurrini)