Per chi ama la boxe, se n’è andato «Il più grande». Un atleta che seppe rivoluzionare il suo sport e dandogli nuova vita. Ma Mohamed Ali, morto questa notte a 74 anni in un ospedale di Phoenix, in Arizona, è stato qualcosa di più di un pugile, sebbene fortissimo, il più forte del suo tempo. Prima che boxeur è stato un uomo che ha saputo combattere anche per qualcosa di più che un obiettivo sportivo.
Dopo aver vinto il titolo olimpico nel 1960 a Roma e aver inanellato i primi successi come professionista, battendo, tra gli altri, il campionissimo Sonny Liston, la sua carriera si interrompe. Mohamed Ali, dopo esserci convertito all’Islam e aver cambiato nome (il suo nome di battesimo era Cassius Clay) si rifiuta di arruolarsi e critica la campagna militare in Vietnam. « Non ho niente contro i Vietcong, loro non mi hanno mai chiamato “negro”», dirà polemico ai giornalisti che gli chiedono dove fosse il Vietnam. Il suo rifiuto gli costa il ritiro della licenza da parte delle commissioni atletiche pugilistiche statunitensi. Sono gli anni della contestazione e delle rivendicazioni dei diritti civili da parte della popolazione di colore. Lui si schiera apertamente dalla parte di Martin Luther King e di Malcom X. Torna a combattere solo nel 1971 e, ovviamente, torna a vincere.
Nel 1974, George Foreman, un campione poco amato dal pubblico per il suo carattere scontroso, decise di sfidare Ali per dare una dimostrazione al mondo intero di chi era effettivamente il più forte. Il match, noto come «The Rumble in the Jungle», è organizzato a Kinshasa, allora Zaire. Dopo un certo periodo di acclimatamento in Africa, i due si scontrano il 30 ottobre. Il pubblico africano si schiera a sostegno di Alì e gli grida: «Ali boma ye» ovvero «Ali uccidilo». «George, texano di Marshall, era il tipico ragazzo nero americano che, nell’età dell’adolescenza, aveva trovato un po’ di benessere grazie alla potenza dei suoi cazzotti – scrisse Gianni Brera -. Amava il baseball, la Coca Cola, i pop corn e la televisione. Quando fu scaraventato in Zaire per un match che aveva mille motivazioni commerciali, geopolitiche, etniche, non si sentì a suo agio. Non gliene fregava nulla di quello che c’era intorno. Il rinvio di un mese del match, per un suo incidente in allenamento, aumentò il disagio. Mohamad Ali, invece, aveva trasformato la vigilia nel trionfo dei suoi ideali, scoperti prima con Malcom X e poi con i Black Muslims. Si sentiva a suo agio davanti al fiume Congo, il fiume della tradizione nelle ballate degli ex schiavi d’America, e trasformò questa allegria in una guerra psicologica. Il giorno delle operazioni di peso le sue provocazioni rischiarono di anticipare lo scontro. Foreman fu trattenuto, ma la rabbia lo aveva già sconfitto».
L’incontro è memorabile e Ali riesce ad avere ragione di Foreman, diventando campione del mondo per la seconda volta. Ali è all’apice della sua carriera da quel momento però inizia la discesa fino al ritiro nel 1981. Su 61 incontri disputati, vanta un record di 56 vittorie, 37 delle quali per Ko. Ha perso per Ko una sola volta.
Nel 1984 gli viene diagnosticato il morbo di Parkinson e commuove il mondo apparendo come ultimo tedoforo le Olimpiadi di Atlanta del 1996. In quell’occasione gli viene anche riconsegnata la medaglia d’oro vinta a Roma nel 1960, poiché si narra che abbia gettato l’originale in un fiume come plateale gesto di protesta verso il suo Paese e la perdurante discriminazione razziale: di ritorno in patria dopo i fasti romani, un ristoratore si rifiutò di servirlo, perché nero.