In Etiopia la tempestiva risposta del Governo all’emergenza coronavirus – attualmente i casi confermati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sono 12 – si è inserita sulla scia delle misure applicate già in altri Paesi colpiti dalla pandemia. Il 16 marzo sono state chiuse tutte le scuole e limitate le attività di nightclub e bar. Quindi sono stati annullati gli eventi che avrebbero comportato l’aggregazione di molte persone. Il 20 marzo il Primo Ministro Abiy Ahmed Ali ha poi dichiarato che, al fine di evitare situazioni di congestione all’interno delle carceri, sarebbero stati liberati i detenuti con condanne leggere, quelli ormai prossimi alla fine della pena e le detenute con figli. Ha inoltre annunciato l’adozione di misure contro i commercianti che gonfiano i prezzi dei beni di consumo. Il Governo sta poi lavorando per istituire centri di quarantena regionali.
L’Ethiopian Airlines, la compagnia di bandiera che copre tutto il continente africano, Europa, Asia, Sud e Nord America, dopo aver fino alla fine garantito i voli da e per la Cina ha finalmente annunciato di voler limitare i collegamenti annunciando la cancellazione delle tratte verso 30 Paesi e quarantena obbligatoria per chi proviene da Nazioni colpite dal virus (e naturalmente l’Italia è fra queste). Ad oggi sono moltissimi gli stranieri che hanno lasciato il Paese mentre le Ong continuano a rimpatriare i propri dipendenti. Se da un lato le restrizioni di contenimento necessarie appena adottate seguono direttive comuni ai vari Paesi in virtù di un effetto domino di chiusura che pare essere l’unico deterrente al contagio, dall’altro non si può non considerare il sostrato specifico su cui queste misure poi ricadono. Addis Abeba rappresenta il caso limite in Etiopia.
Di questi tempi, chi vive ad Addis Abeba si chiede: come sta reagendo la capitale? Qual é il sentire comune? Parliamo di una città che conta circa 8 milioni di abitanti (ma è solo una stima), vertiginosamente in crescita, con un’enorme varietà di flussi migratori interni ed esterni. Una città caotica, impolverata ed inquinata, fatta di cantieri occupati di notte da senza fissa dimora, da edifici a specchio a strapiombo su baracche in lamiera appoggiate, in precario equilibrio, l’une alle altre come carte da gioco. I mercati informali sono ovunque, il trasporto pubblico solo su gomma (sui pulmini si sta stretti come sardine), un’infinità i mendicanti, donne e anziani, e i bambini che sniffano colla dalla mattina alla sera. Decisamente difficile tirare a campare, per questo non ci si può fermare. Adesso che il coronavirus sta imponendo a tutto il mondo uno stop senza compromessi, in luoghi come questo, dove la bellezza certamente esiste ma non si giustifica, è difficile capire come le misure di prevenzione possano essere applicate.
Dal primo caso conclamato di coronavirus il tamtam mediatico ha raggiunto tutti. Attraverso la televisione molti servizi illustrano le norme di igiene, come prevenire il contagio e la sintomatologia del virus, i telegiornali fanno i dovuti approfondimenti, la messaggistica telefonica dà informazioni sul numero d’emergenza, messaggi vocali informativi prima dell’inoltro chiamata aiutano a non distogliere l’attenzione. Tutti sanno, tutti ne parlano. Il movimento caotico è però inarrestabile, il commercio di sussistenza non ha rete di sicurezza. Sui pulmini, camminando per strada, al mercato o nei negozi, coronavirus è la parola che spezza il flusso indistinto di suoni. Le mascherine sono terminate in tutte le farmacie e se si trovano il prezzo è salito alle stelle. C’è chi crede che aglio e limone sarebbero un rimedio efficace e così anche il pinzimonio è rincarato vertiginosamente. Tra la gente il sentire è vario. E se tutta questa storia fosse una punizione di Dio per non avergli rivolto la parola, per non averlo rispettato abbastanza?
«Molti sono tornati a pregare. Per l’Italia, per l’Etiopia, per tutti. Troppo sangue è stato sparso nella nostra comunità. Bisogna che si ritorni in chiesa», invoca qualcuno. C’è chi invece minimalizza la drammaticità delle notizie. «Hey, you, ferenj, don’t worry, there is no coronavirus here in Ethiopia», si sente dire a chi cammina per strada con la mascherina. I ferenj sono gli stranieri, nello specifico i bianchi, i bianchi che non siano siriani (i siriani sono siriani. Scappati dalla guerra, chiedono l’elemosina per strada, non vivendo una condizione di privilegiati hanno uno status a sé stante). Qualche giorno fa correva voce di aggressioni, per lo più verbali, a ferenj accusati di aver portato il virus nel Paese. Inevitabile il parallelismo con le aggressioni razziste contro la comunità cinese registrate in Italia agli albori della diffusione della pandemia, ma va detto che l’appellativo ferenj o China si sentiva anche prima dell’esplosione della crisi.
L’aria qui ha cambiato odore, questo è percepibile da tutti. Sono messe in pratica forme di autogestione popolare per la prevenzione. E la percentuale di scetticismo è inevitabilmente calata. Si moltiplicano a vista d’occhio, giorno dopo giorno, bidoni d’acqua collocati ovunque su supporti improvvisati con accanto sapone per le mani. All’ingresso di esercizi commerciali, farmacie, minimarket, ristoranti e caffè, in mezzo alla strada in prossimità di un incrocio, dappertutto. Personale con mascherina ricorda che bisogna lavare le mani all’entrata. Alcune corde impongono la distanza di sicurezza alla cassa. File ordinate all’ingresso delle farmacie. Alla fermata dei pulmini collettivi, spicca anche qui un grosso bidone d’acqua scompostamente seduto su una sedia e del sapone poggiato sul tavolo. Impossibile non notare l’accoppiata. Se il governo non ti dà gli strumenti, bisogna improvvisare. É una reazione collettiva, spontanea, di tutela della comunità.
Tutti comprendono la gravità della situazione ma nessuno è in grado di prevedere la portata dell’impatto economico e in termini di vite umane. Ognuno dà a questa pandemia una spiegazione a seconda del proprio background culturale e religioso. È capitato, è una punizione divina, è la risposta della natura allo sfruttamento dell’uomo, è un complotto. Ma al di là di questo, c’è una consapevolezza crescente del fatto che nulla sarà come prima. Se il virus si rivela indifferente alle disuguaglianze sociali (tutti possono ammalarsi), è al contempo rivelatore in modo irruente delle gestione poco equilibrata dell’emergenza. L’assenza di ammortizzatori sociali ai tempi del coronavirus crea inevitabilmente diffidenza e conflitti fra classi.
(Marta Guastella)