A essere precisi, La terra inquieta, la collettiva ideata e curata da Massimiliano Gioni, allestita alla Triennale di Milano, non è una mostra di arte contemporanea africana. Al suo interno, però, attraverso i suoi artisti e le sue narrazioni, l’Africa occupa una posizione di rilievo. Ed è per questo che la trovate qui, in apertura di rubrica. La terra inquieta parla di migrazioni, guerre, emergenze ambientali. Tocca una molteplicità di luoghi: la Siria, Lampedusa, i campi profughi. Racconta la contemporaneità da una prospettiva dichiaratamente non giornalistica ma che, in molti casi, supera per precisione, profondità e coinvolgimento la testimonianza dei reporter.
Questo è evidente, per esempio, nel progetto The Mapping Journey dell’artista marocchina Bouchra Khalili: una installazione video che raccoglie le storie di uomini e donne che hanno attraversato i continenti, cercando un varco nella fortezza Europa. O nel film Vertigo Sea dell’angloghanese John Akomfrah (foto), poetica riflessione sul mare e il suo ruolo nella storia della schiavitù, della migrazione e della guerra. Lo avevamo già apprezzato alla Biennale di Venezia 2015, ma il contesto milanese gli conferisce uno spessore ancora maggiore.
La mostra tocca in verità molti altri temi: il diritto all’immagine, il suo valore comunicativo, il movimento delle merci, l’essenza valicabile delle frontiere… E inserisce così in una straordinaria cornice di senso le opere concettuali di Kader Attia o Meschac Gaba, le composizioni di El Anatsui o di Pascal Marthine Tayou. Perché inquieta è certamente la Terra intera, ma l’Africa, di tanta inquietudine, è uno snodo geografico e mentale imprescindibile. Fino al 20 agosto.
Info: www.triennale.org
(Stefania Ragusa)