Oltre 2.400.000 «media online» monitorati dal 1° gennaio al 15 novembre 2019, che si esprimono nelle lingue araba, inglese, francese, tedesca e spagnola. A questo ampio ancorché selettivo bacino di organi d’informazione è stato applicato, avvalendosi dell’esperienza di Meltwater Group, azienda che si occupa di monitoraggio dei media digitali, il filtro delle crisi umanitarie nel mondo. Le crisi prese in considerazione sono quelle che hanno colpito almeno un milione di persone in una data area (non necessariamente in un solo Paese). Quali sono state, dunque, le situazioni gravissime di cui l’informazione si è accorta di meno? (E, possiamo inferire, ancora di meno se ne saranno accorti gli organi d’informazione tradizionale).
La confederazione statunitense di ong “Care” (nata alla fine della Seconda guerra mondiale per portare aiuti in Europa, per poi allargare la sua azione a 360 gradi) ha in questo modo individuato le 10 crisi più dimenticate in assoluto. E 9 di queste riguardano l’Africa.
Nel rapporto Suffering in Silence, pubblicato martedì, la maglia nera spetta al Madagascar. Qui, sono stimate in 2,6 milioni le persone che hanno patito gli effetti della siccità, e 916.000 quelle nell’immediato bisogno di assistenza alimentare. Una caratteristica degli sconvolgimenti climatici è l’estremizzazione dei fenomeni: così, pochi giorni fa davamo notizia delle piogge e inondazioni che in questo momento sconvolgono l’Isola Rossa.
Seguono la Repubblica Centrafricana e lo Zambia: Paesi, entrambi, «troppo lontani dal Sahel, quindi dalla rotta delle migrazioni verso il Nord. E dove la gente è così povera che non ha nemmeno i mezzi di lasciare il proprio Paese», osserva la portavoce di Care Germania, Sabine Wilke. Nell’ex Impero di Bokassa, ora in un periodo di relativa calma dopo i feroci anni 2013-17, si calcola che abbia dovuto lasciare la propria residenza un abitante su quattro, e «circa metà della popolazione, 2,6 milioni di persone, è nel disperato bisogno di assistenza umanitaria». Cifra simile per il Paese delle Cascate Vittoria, anch’esso flagellato dal cambiamento climatico, come la nostra rivista documentava una settimana fa: «Nel 2019 – dice il rapporto di Care – la stagione delle piogge nelle regioni meridionali e occidentali ha registrato un livello minimo di precipitazioni come non accadeva dal 1981».
Nella graduatoria delle crisi consegnate all’oblio seguono Burundi ed Eritrea, dove le cause sono soprattutto politiche (regimi repressivi) e queste aggravano e moltiplicano gli effetti della povertà. Saltando il 6° posto, occupato dalla Corea del Nord, da dove le notizie comunque filtrano difficilmente, troviamo il Kenya, terra di contraddizioni – ricordiamo come sia partito da qui il movimento di attenzione all’ambiente in Africa, con il Nobel per la Pace Wangari Maathai che incentivava la riforestazione –, il quale nel 2019 ha registrato gravi siccità e alluvioni beneficiarie di scarsa copertura mediatica internazionale.
Il Burkina Faso è diventato in breve tempo un territorio di violenza jihadista, interessante per i vari gruppi islamisti anche perché fa da ponte con i sottostanti Paesi con sbocco sul mare. Hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni, a causa dell’insicurezza, mediamente 30.000 burkinabè al mese.
Al nono posto, l’Etiopia, cui il rapporto dedica questo titolo: “Un circolo vizioso di disastri, fame e sfollati”, quindi il Bacino del Lago Ciad dove alla drammatica riduzione dello specchio d’acqua si aggiunge l’insicurezza crescente. Anche qui, infatti, imperversa Boko Haram: l’ultima notizia risale a ieri e parla di cinque pescatori uccisi nel corso di un attacco al villaggio camerunese di Blaram.
Quello di Care è il quarto rapporto consecutivo annuale su questo tema. E già si preannunciano nuove grandi crisi: come quella in corso nell’Africa orientale – un’invasione di cavallette fuori scala, provocata anche questa dall’alterazione dei ritmi climatici – e l’allarme riguardante l’Africa australe lanciato dal Programma alimentare mondiale, cui è venuto giusto ora ad aggiungersi quello dell’Unicef, che prevede necessità di assistenza umanitaria per 5 milioni di bambini nel Sahel centrale, l’area più colpita dal jihadismo (Burkina, Mali e Niger). Oltre ai bisogni basilari dei figli delle famiglie sfollate o nell’impossibilità di occuparsi della coltivazione dei campi per i rischi sempre in agguato, ci sono bambini che «vengono uccisi, mutilati e sono vittime di abusi sessuali, centinaia di migliaia di loro hanno vissuto esperienze traumatiche», come ha dichiarato Marie-Pierre Poirier, direttrice regionale Unicef.
P.S.: È appena il caso di ricordare che la stragrande maggioranza dei “migranti per bisogno” africani, oltre il 90%, non esce dal continente, e che circa il 60% di loro si spostano all’interno del proprio Paese.
(Pier Maria Mazzola)
Foto: Care / @Darcy Knoll