Si chiama Afcfta: African Continental Free Trade Area. È l’area di libero scambio africana. Sarebbe dovuta entrare in funzione a luglio ma, per effetto della pandemia, ha preso il via solo il 1° gennaio. Ne fanno parte tutti i Paesi africani a eccezione dell’Eritrea, che finora ha preferito restarne fuori.
L’accordo di libero scambio ha il potenziale di far uscire milioni di persone dalla povertà e anche di fornire un valido cuscinetto contro gli effetti negativi di Covid-19, sottolinea un rapporto della Banca mondiale pubblicato lo scorso luglio e intitolato The African Continental Free Trade Area, economic and distributional effects.
Secondo il rapporto, l’accordo, attuato integralmente, potrebbe far crescere il commercio interno del 52% nell’arco di due anni, aumentando il reddito continentale del 7% ovvero di 450 miliardi di dollari e accelerando la crescita dei salari per le donne. Secondo le prime stime almeno 30 milioni di persone potrebbero uscire dalla povertà estrema entro il 2035. Obiettivi raggiungibili e legati indissolubilmente al decollo del commercio intra-africano, al momento più che marginale nelle bilance di qualunque Paese africano.
La marginalità attuale dell’Africa risulta evidente dai numeri. I Paesi firmatari dell’accordo commerciano con i vicini per una minima parte del loro export: solo l’8% delle esportazioni è diretto da un Paese africano a un altro. In generale, poi, il peso del continente nel commercio globale è ancora limitato: l’Africa rappresenta il 2,8% del commercio globale (ma nel 1970 rappresentava il 4,3%) e così pure il pil africano sul totale mondiale, eppure parliamo di un continente che ha una popolazione pari oggi al 16,7% di quella globale e che è destinata a crescere con celerità nei prossimi decenni.
Questo quadro davvero poco roseo, tuttavia, secondo gli esperti della Banca mondiale, potrebbe cambiare in breve tempo, paradossalmente anche alla luce degli effetti negativi derivanti dall’attuale pandemia, che potrebbe causare perdite di produzione fino a 79 miliardi in Africa soltanto nel corso del 2020.
Di fatto, la pandemia ha già causato gravi interruzioni commerciali in tutto il continente, anche nel campo dei beni di prima necessità come forniture mediche e cibo. Ma proprio questa situazione sta convincendo della necessità di partire quanto prima con misure per ridurre la burocrazia e semplificare le procedure doganali.
La liberalizzazione delle tariffe e la riduzione delle barriere non tariffarie come le quote e le regole di origine, stando alle stime della Banca mondiale, porterebbero con una certa immediatezza a un aumento del 2,4% dei redditi, ovvero circa 153 miliardi. Il resto – 292 miliardi – verrebbe dalle misure di facilitazione del commercio, che puntano ad abbassare la burocrazia, a rendere più contenuti i costi di conformità per le imprese impegnate nel commercio e a incentivare l’inserimento delle imprese africane nelle catene di approvvigionamento globali.
Sostituendo il mosaico di accordi regionali, razionalizzando le procedure di frontiera e dando priorità alle riforme commerciali, l’Afcta potrebbe aiutare i Paesi del continente ad aumentare la capacità di resistenza di fronte ai futuri shock economici e, sul lungo termine, contribuire alla loro crescita.
Secondo la Banca mondiale, l’accordo è in grado di rimodellare i mercati e le economie in tutto il continente, portando alla creazione di nuove industrie e all’espansione di settori chiave. I guadagni economici complessivi potrebbero variare, con i ritorni maggiori per i Paesi che attualmente sostengono forti spese per la movimentazione dei beni: Costa d’Avorio e Zimbabwe, dove i costi commerciali sono tra i più alti della regione, potranno registrare un aumento del reddito del 14%.
Il tasso di incremento delle esportazioni intra-continentali è calcolato all’81%, mentre quello verso i Paesi non africani è previsto intorno al 19%. Il comparto che più trarrebbe vantaggio dall’implementazione dell’area di libero scambio è la manifattura (110% in più di commercio intra-regionale e 46% in più di esportazioni extra-continentali), seguito dall’agricoltura, soprattutto a livello intraregionale (+46%), e, in misura più modesta, dai servizi commerciali (+4% la media totale, +14% all’interno dell’Africa). Numeri importanti che danno un’idea precisa della rivoluzione che potrebbe scattare nel continente nei prossimi anni. A beneficiare di più di questa spinta in avanti, sarebbero Camerun, Egitto, Ghana, Marocco e Tunisia, con il raddoppio e in alcuni casi la triplicazione dei livelli nazionali odierni.
I dati danno effettivamente concretezza al concetto dell’Africa che produce per l’Africa, ovvero alla considerazione che il mercato africano sta entrando in una nuova fase di maturità che costringerà anche a rivedere tutte le catene della logistica e dei trasporti. Non più un’Africa che esporta le sue materie grezze verso altri continenti, ma un’Africa che comincia a guardare con maggiore attenzione a se stessa, ai suoi mercati, alla sua crescente classe media.
Lo studio evidenzia inoltre come l’attuazione dell’accordo comporterà aumenti salariali per diverse fasce sociali: per le donne saranno più significativi rispetto a quelli degli uomini (rispettivamente, 10,5% e 9,9%), anche per il loro maggiore coinvolgimento in una serie di servizi legati al commercio, e incrementi simili sono attesi anche per i lavoratori qualificati e non qualificati (10,3% e 9,8%). Salirà poi la produzione: entro il 2035, cioè entro 15 anni, la produzione del continente sarà cresciuta di 212 miliardi di dollari rispetto ai valori attuali. In questo caso i passi più rilevanti saranno messi a segno dai servizi (147 miliardi di dollari), seguiti da manifattura (56 miliardi) e risorse naturali (17 miliardi).
Se tutte le nazioni (eccetto l’Eritrea) hanno dato il loro assenso, al 1° gennaio solo 34 avevano ufficialmente ratificato il trattato. Tra essi colossi come la Nigeria, primo Paese del continente per popolazione e ricchezza, che però teme che questa area di libero scambio possa danneggiare il proprio settore manifatturiero.
Sono poi diverse anche gli ostacoli sulla via della piena attuazione. Tra essi quelli burocratici. Non sarà né semplice né immediato eliminare il 90% dei dazi doganali e le rispettive entrate. Non vanno poi trascurati i problemi infrastrutturali. La grande maggioranza delle merci (circa l’80%) viaggia su gomma, ma strade, ponti, collegamenti sono in condizioni così disastrosi che potrebbero seriamente impedire una libera transizione delle merci o potrebbero dare un vantaggio economico a quei pochi paesi (come Sudafrica ed Egitto) che hanno porti e vie di comunicazione ben strutturati.
(Enrico Casale)